Hockey

La fine dell’era Fasel: ‘Non ho mai pensato di mollare’

Ultime ore alla presidenza dell’Iihf per l’ex dentista friborghese, che lascia dopo 27 anni. ‘Canadesi e nordeuropei non avevano vissuto bene la mia elezione’

Ventisette anni dopo la sua elezione, l'uscita di scena. 'Lasciai subito Venezia, l'aria s'era fatta irrespirabile...' (Keystone)
22 settembre 2021
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È la fine di un’era: a San Pietroburgo, René Fasel si congeda dopo 27 anni come presidente della Federazione internazionale di hockey, che in occasione del suo congresso annuale iniziato quest’oggi, nel weekend eleggerà quale suo successore uno tra Petr Briza (Repubblica Ceca), Sergej Gontcharov (Bielorussia), Franz Reindl (Germania), Luc Tardif (Francia) e Henrik Bach Nielsen (Danimarca).

Oggi settantunenne ex dentista friborghese, tredicesimo presidente nella storia dell’Iihf, prima di ritrovarsi al vertice dell’hockey mondiale René Fasel aveva presieduto la Federazione svizzera per nove anni, tra il 1985 e il 1994, e nessuno più di lui è riuscito ad avere un impatto sulla Federhockey internazionale. Basti dire che, grazie a un nuovo contratto di commercializzazione firmato fino al 2033 con la società Infront, nei prossimi 12 anni l’Iihf potrà contare su entrate di quasi mezzo miliardo di franchi.

René Fasel, la sua presidenza termina nel weekend 27 anni dopo che era iniziata. Quali sono, adesso, le sue sensazioni? «Non ho avuto molto tempo per pensarci – racconta Fasel –. C’era troppo da fare: la preparazione del Congresso di San Pietroburgo, le trattative con la National Hockey League per un suo ritorno ai Giochi di Pechino, le riunioni con il Consiglio, gli affari quotidiani a Zurigo. Ma quando arriverà il mio ultimo giorno di lavoro, sabato, potrò fare un respiro profondo e guardare indietro alla mia carriera; almeno per un po’ (ride, ndr)».

La battaglia per la sua successione potrebbe dar vita a qualche attrito? «È nella natura delle cose. Se su cinque candidati, tre hanno una reale possibilità di essere eletti, sicuramente il terreno è fertile per potenziali conflitti. E visto che dei cinque candidati quattro resteranno delusi dal voto, v’è da chiedersi fino a che punto questa delusione possa ostacolare la collaborazione futura. Tuttavia, da sportivo devi accettare quando qualcun altro è migliore di te e vince, e continuare a lavorare col resto della squadra».

‘Tra i candidati c’è chi si sopravvaluta’

È notevole che ci siano ben cinque candidati alla sua successione. «Sul piano democratico direi che ciò è molto buono. In quella cerchia, però, ci sono anche persone che si sopravvalutano, che si candidano più per motivi politici, puntando per esempio al posto di vicepresidente. Direi che ci sono candidati di cui sono personalmente convinto, e altri che invece non sanno quali sono le sfide e le esigenze che richiede quella posizione».

Quando ripensa alla sua di elezione, nel lontano 1994, come si sente? «Mi sembra come se fosse ieri. Il congresso si era tenuto nel mese di giugno, a Venezia. Io ero presidente della Federazione svizzera e mi trovavo di fronte il canadese Gordon Renwick, il finlandese Kai Hietarinta, l’italiano Paul Seeber e il ceco Miroslav Subrt, tutti avversari seri. Alla fine, sono stato eletto al quarto turno con 46 voti contro i 32 di Hietarinta. Canadesi e nordeuropei all’inizio non hanno vissuto bene la mia elezione, ed erano molto delusi. Ero arrivato a Venezia in auto, con mia moglie e i miei due figli, e subito dopo l’elezione abbiamo fatto rientro in Svizzera, perché a Venezia l’atmosfera si era fatta insopportabile».

‘Quel pezzo sul giornale il giorno della finale mi fece male’

Qual è stato il punto più alto della sua presidenza? «La prima apparizione dei giocatori della Nhl alle Olimpiadi, quelle di Nagano del 1998. Sul ghiaccio c’erano i migliori, come Gretzky, Jagr o Yashin. A differenza di ciò che era successo nel basket ai Giochi di Barcellona del 1992, dove c’erano il dream team delle stelle statunitensi, noi a Nagano di dream team ne avevamo sei. Fu una cosa grandiosa, e la magia dei Giochi resse fino alla fine, visto che a trionfare furono i cechi che neppure erano i favoriti».

Il punto più basso, invece? «Sono una persona dall’attitudine positiva e ottimista, quindi per me il bicchiere è sempre mezzo pieno: non voglio sfinirmi davanti agli episodi negativi. Non c’è mai stato un momento in cui ho pensato di gettare la spugna. Del resto, non bisogna mai smettere di battersi. Ma se proprio devo citare un momento difficile, direi che forse è quell’articolo apparso su un quotidiano svizzero la mattina della finale dei Mondiali 2009 a Berna, in cui venivo accusato di essermi arricchito a titolo personale. Erano accuse irrilevanti, ma il metodo e la maniera utilizzati per screditarmi mi hanno fatto molto male. Soprattutto ne hanno sofferto mia moglie e i miei figli, che a scuola sono stati vittime di mobbing. Sono stati loro a soffrire di più per quell’articolo».

La sua ultima grande sfida è stata quella di riportare i giocatori della Nhl a Pechino. Il risultato? «In linea di principio, la questione è risolta. Almeno per tutto ciò che ha a che fare con le questioni assicurative, i trasporti e la programmazione. La Nhl infatti a febbraio interromperà il campionato per essere a Pechino. Tuttavia, il Covid rende tutto più difficile: fra sei mesi potremo giocare con gli spettatori? E tutte le nazioni potranno volare in Cina senza restrizioni?».

‘Nessun sostegno a Lukashenko

Quest’anno, la sua visita al controverso presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha sollevato un mare di critiche. Lo sport d’élite è sempre più sottoposto all’influenza della politica: lei ha cercato di impedirlo? «Il nostri piani erano ben diversi. Dopo le turbolente elezioni presidenziali in Bielorussia dell’estate 2020, abbiamo creduto che grazie al Mondiale di hockey avessimo la possibilità che l’evento potesse portare alla riconciliazione. Non è mai stata nostra intenzione andare a Minsk per sostenere Lukashenko: per noi, la relazione attraverso lo sport con il presidente bielorusso è stata un’opportunità di dialogo per riunire il Paese. Alla fine, però, tutti i nostri sforzi sono stati oscurati da un gesto che non può in alcun modo essere interpretato come una fraternizzazione: quell’abbraccio è stato un gesto tra due uomini che si conoscono da vent’anni e sono legati dall’amore per l’hockey. E nella cultura russa l’abbraccio è l’equivalente della nostra stretta di mano».

Ora che ha settantuno anni, quali sono i suoi piani per il futuro? «Sul tavolo ci sono alcune offerte, ma niente è deciso. Sicuramente mi piacerebbe andare in Russia, perché vorrei imparare finalmente il russo come si deve. È una lingua che capisco già molto bene, ma voglio essere in grado di padroneggiarla perfettamente. C’è una possibilità di cooperazione con l’Università olimpica russa di Sochi, ma ci sono pure altri progetti con un’accademia dell’hockey, con la Khl e con la Federazione russa. Sarebbe bello se potessi aiutare in qualche modo».

Un ritorno alle radici, invece, nel Consiglio di amministrazione del Friborgo? «Il Gottéron rimarrà per sempre il mio grande amore. E posso solo dire che un giorno saremo campioni: semplicemente non dovremo mai arrenderci. Anche se, forse, un titolo non sarebbe poi tutta questa gran cosa: infatti, cosa potremmo sognare dopo, una volta raggiunto il grande traguardo?».

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