Hockey

Non è sempre Danimarca

Tutti pazzi per la Svizzera di Fischer, alla vigilia del Mondiale di Kosice e Bratislava. Ma ci vorrebbe ancor più Nordamerica per fare il passo in più

9 maggio 2019
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Tutti pazzi per la Svizzera. Bastano le ultime quattro amichevoli di preparazione ai Mondiali che iniziano domani in Slovacchia, per capirlo. Quattro partite contro avversari neppure troppo seducenti come Francia e Lettonia, di cui ben tre andate in scena a casse chiuse. Poi non sarà un caso se il tutto esaurito s’è registrato a Sierre, Herisau e Weinfelden, in quella che potrebbe tranquillamente essere definita periferia dell’hockey. Ed è vero pure che si sta parlando di stadi dalla capienza limitata, ma che si sarebbero forse riempiti ugualmente anche se fossero stati grandi il doppio. Tanto grande era l’entusiasmo sia in Vallese, dove i riflettori erano puntati soprattutto sul fenomeno Nico Hischier, sia nelle due partite giocate nel Canton Turgovia e nell’Appenzello Interno. Dove a far brillare gli occhi dei tifosi, specie quelli dei più giovani, è stato il carisma di uno come Roman Josi.

Lasciando per un attimo da parte l’aspetto divinatorio della situazione, pensando all’infatuazione che possono scatenare due giocatori che sono – loro sì – vere star, chi ha potuto assistere dal vivo a quelle tre partite si sarà senz’altro accorto di quale fossero l’affetto e soprattutto l’attesa nei confronti del gruppo plasmato da Patrick Fischer. È l’effetto Danimarca, quello. Che fa il paio con l’effetto Stoccolma, pensando all’altro storico argento di cinque anni prima, al Mondiale in Svezia. Due finali sensazionali e per certi versi anche epiche, ma che – tuttavia – non debbono far perdere di vista la realtà delle cose. Cioè che ogni edizione ha la sua storia.

«Non eravamo asini prima, non siamo eroi oggi» sono le parole scelte dal giovane tecnico di Zugo a Copenaghen, accostando quel secondo posto tanto scintillante al disastro ai Giochi in Corea di un paio di mesi prima. Traduzione: le cose non sempre vanno come uno vorrebbe. Non solo perché, purtroppo, o per fortuna, bisogna pur sempre fare i conti con l’imponderabile, ma più semplicemente perché ad ogni occasione questo o quell’allenatore è costretto a subire ciò che succede nel frattempo al di là dell’oceano. E che, naturalmente, ha un fortissimo impatto sulla fisionomia di una squadra. Vale a maggior ragione per una Svizzera, a cui l’assenza di un Niederreiter – pronto a giocare la finale di Conference con i suoi Carolina Hurricanes – finisce con l’avere un impatto anche maggiore di quello che potrebbe avere l’assenza di una qualsiasi stella di qualsivoglia nazione. Semplicemente perché, oggi come oggi, l’Elvezia dell’hockey può vantare soltanto una decina di giocatori che a tutti gli effetti sono titolari più o meno inamovibili nel campionato più bello e ricco del mondo. Saranno pure il triplo rispetto agli anni Novanta, ma è ancora un numero piuttosto esiguo per pretendere di far parte delle quattro, cinque migliori nazioni del pianeta. E per capire cosa s’intende quando si parla di giocatori che hanno le qualità per ritagliarsi un posto nella National Hockey League, è sufficiente guardare al modo in cui si muovono elementi come Fiala, Hischier o Josi quando si ritrovano il disco nei paraggi.

Quindi va bene l’entusiasmo, va bene l’attesa, ma ci vuole pur sempre anche un po’ di realismo. E se l’asticella posta all’altezza dei quarti è da ritenere comunque un obiettivo minimo per una Svizzera finita sul podio due volte in cinque anni, finché la diaspora elvetica tra Stati Uniti e Canada non avrà assunto una consistenza anche maggiore, tutto ciò che arriverà in più in una qualsiasi edizione del Mondiale avrà sempre il sapore dell’impresa.

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