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Christian Eriksen e quei gol alla vita

Il danese è tornato a vestire la maglia della sua nazionale (e a segnare) al Parken di Copenaghen, dove lo scorso giugno era morto per 5 minuti

6 aprile 2022
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Christian Eriksen è morto. Per cinque minuti. Poi è tornato a respirare. Drammatico. Scioccante. Sì, ma pure straordinario. Come incredibile è il racconto del destino del calciatore danese dopo quel maledetto 12 giugno 2021, quando allo stadio Parken di Copenaghen il suo cuore ha improvvisamente smesso di battere allo scoccare del 42esimo minuto del match di Euro 2020 della sua nazionale contro i "cugini" finlandesi. Un’incursione tentata nell’area avversaria, il pallone spazzato in fallo laterale dagli avversari e i primi passi allungati verso il compagno pronto a servirgli la sfera con le mani. Un pallone che il numero dieci però non controlla, perché sta già crollando al suolo esanime. Quello stesso compagno (Maehle) che pochi istanti prima gli aveva passato la palla, lo soccorre. Poi arriva Kjaer, capitano e amico, che gli salva la vita precedendo con poche ma azzeccate mosse (in particolare lo ha messo su un fianco impedendogli di soffocare) l’intervento dei soccorritori. Il lavoro di questi ultimi, un massaggio cardiaco ripetuto, è protetto dallo schermo formato dai giocatori stretti attorno al loro compagno e accompagnato dal rumoroso silenzio del Parken, mentre Kjaer abbraccia la disperazione della moglie del numero dieci, accorsa sul campo. Poi, il sollievo. Dopo 12 interminabili minuti, Eriksen viene accompagnato fuori dal campo in barella dopo aver riaperto gli occhi e risposto a una semplice domanda: "Sì, sono tornato con voi. Dannazione, ho solo 29 anni".

Il Brentford e il ritorno al Parken, passando anche da Chiasso

Sì, Christian Eriksen era tornato. Fortunatamente, miracolosamente, è rimasto attaccato alla vita. E forse anche per questo, poi non si è accontentato di accoglierla per come il destino gliela (ri)presentava. Senza calcio, che in fondo la sua vita è, nemmeno per sogno. Ha quindi deciso di dribblare l’anomalia del suo cuore facendosi impiantare un defibrillatore sottocutaneo, che in caso di nuovo arresto cardiaco gli salverebbe la vita ripristinando il battito attraverso una scossa elettrica. In Italia, uno dei Paesi con i paletti più rigidi da questo punto di vista, non avrebbe comunque potuto giocare in quanto ritenuto non idoneo all’attività agonistica, da qui la rescissione del contratto con l’Inter dello scorso dicembre, gli allenamenti al Comunale di Chiasso, quelli con il "suo" Ajax e infine, il 31 gennaio, il ritorno (lui che per 8 stagioni aveva vestito la maglia del Tottenham) in Premier League.

A differenza di quella italiana, la Federazione inglese (Fa) non vieta infatti a qualcuno di giocare sulla base di uno screen cardiaco e anche un giocatore con un problema di questo tipo può appunto essere ritenuto idoneo e tesserato per un club superando una valutazione da parte di un cardiologo sportivo che agisce per conto della Football Association. Cosa che è avvenuta per Eriksen, tornato ufficialmente in campo con la sua nuova squadra lo scorso 26 febbraio – a 259 giorni dalla drammatica serata di Danimarca-Finlandia – nel match di campionato perso 1-0 con il Newcastle, mentre nello scorso weekend, alla terza presenza da titolare, ha persino festeggiato il suo primo gol nel 4-1 sul Chelsea. Ma è una settimana fa che il 30enne danese ha in un certo senso chiuso un cerchio come probabilmente nessuno avrebbe mai pensato la scorsa estate: la sera del 29 marzo Eriksen è tornato al Parken di Copenaghen, dove poco più di nove mesi prima aveva guardato in faccia la morte. Si è rimesso addosso la maglia danese e pure la fascia di capitano per l’amichevole con la Serbia, ha calpestato quella stessa erba sulla quale si era ritrovato inerme e ha segnato. Sì, alla vita.

Il parere

Marano: ‘A Lugano non giocherebbe’

Assomiglia tanto a una fiaba dal lieto fine – che tra l’altro potrebbe vivere un ulteriore appassionante capitolo con la partecipazione ai prossimi Mondiali, sulla quale la Fifa ha già dato il via libera (ad avere l’ultima parola sarà la Federazione danese) –, la storia di Christian Eriksen, ma questo non addolcisce Marco Marano: nelle condizioni attuali, il centrocampista danese a Lugano non giocherebbe.

«È proprio così – ci spiega il team doctor dell’Fcl e pure della squadra di hockey cittadina (e attivo presso la clinica Ars Medica di Gravesano) –. Eriksen potrebbe giocare in Svizzera, in quanto nel regolamento non è prevista nessuna limitazione legata alla presenza di un defibrillatore sottocutaneo. La richiesta della Lega in questo senso è di effettuare una valutazione medico-sportiva sui giocatori a inizio stagione seguendo il protocollo di Swiss Olympic e se il medico ne attesta l’idoneità all’attività agonistica, il via libera è automatico. Anche perché tale protocollo, a differenza di altri Paesi come ad esempio l’Italia e la Spagna, non prevede obbligatoriamente i test cardiovascolari. Noi come Fc e Hc Lugano però li riteniamo molto importanti e di conseguenza li effettuiamo di default, per questo Eriksen non potrebbe giocare nel nostro club, semplicemente non supererebbe la nostra visita medica».

Una questione quindi di valutazione dei rischi, che evidentemente altre società e altri Paesi sono pronti ad assumersi… «Uno sportivo dovrebbe sottostare alle regole del Paese in cui si disputa la competizione, per cui se la squadra – club o nazionale – di Eriksen dovesse disputare ad esempio una partita in Italia, lui non potrebbe giocare. Questo perlomeno a livello teorico, ma nel calcio raramente questa regola viene rispettata, cosa che invece accade ad esempio nel ciclismo. Per questo motivo molto probabilmente Sonny Colbrelli (31enne bresciano vittima di arresto cardiaco al termine della prima tappa del recente Giro di Catalogna e al quale è pure stato impiantato un defibrillatore sottocutaneo, ndr) non potrà più correre a livello agonistico, di sicuro non in Italia».

Per Marano lo stesso dovrebbe valere anche nel calcio… «Sicuramente è un tema molto caldo e dibattuto, sul quale la sensibilità di ognuno è diversa e che persino nella medicina dello sport trova una corrente più rigida e una più permissiva. Il calcio è uno sport di contatto e la prima problematica con un impianto del genere è legata alla possibilità che durante un evento traumatico (ad esempio uno scontro di gioco, ndr) il defibrillatore si rompa e quindi non funzioni a dovere in caso di bisogno. Il secondo problema è invece rappresentato dalla patologia di base che ha reso necessario l’innesto del defibrillatore e che a nostro giudizio rende l’atleta, indipendentemente dalla presenza del meccanismo di "emergenza", non idoneo all’attività a questi livelli. È vero che a rischiare in prima persona è il giocatore, ma nessuno, a maggior ragione un medico, vorrebbe ritrovarsi in una situazione come quella vissuta a Copenaghen».

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