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Commozioni, usate la testa

Il calcio s’interroga su una possibile correlazione tra le ‘capocciate’ e la temuta Cte. Ma lo specialista frena: ‘Non esistono prove. Più importante è il prevenire’

17 gennaio 2019
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E se il neuropatologo Willie Stewart diventasse per il calcio ciò che Bennet Omalu è stato per il football? Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti: nel mondo della palla rotonda la situazione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella della palla ovale “made in Usa”. Ciò non di meno, negli ultimi tempi si sono moltiplicati – e l’ultimo è appunto quello del dottor Stewart – gli studi sulla possibile correlazione tra patologie cerebrali e gioco del calcio, con particolare attenzione posta sull’esercizio del colpo di testa. L’interesse del mondo del pallone si è focalizzato su questo tema dopo la morte, avvenuta nel 2002 a 59 anni, di Jeff Astle, ex bomber anni 60-70 con la maglia del West Bromwich. Nel 2014 Stewart ha avuto l’opportunità di studiare il cervello del giocatore, giungendo alla conclusione che il decesso era stato causato dall’encefalopatia traumatica cronica (la famigerata Cte), costata miliardi di dollari di risarcimento alla Nfl dopo le inconfutabili conclusioni del dottor Omalu sulla sua correlazione diretta con il football. Altri due ex nazionali inglesi deceduti, Martin Peters e Ray Wilson, erano affetti dal morbo di Alzheimer, mentre di recente Alan Shearer si è detto terrorizzato all’idea di poter sviluppare in futuro una forma di demenza cerebrale. Dello studio di Stewart, che mette a paragone 10’000 calciatori professionisti con 30’000 persone “normali”, e più in generale del problema delle commozioni cerebrali nel calcio e nello sport, abbiamo voluto parlare con il dottor Patrick Siragusa, medico sportivo e responsabile del Centro cantonale di medicina sportiva al Cst di Tenero e già medico sociale dell’Hc Lugano.

«In primo luogo, terrei a sottolineare come studi retrospettivi come quello del dottor Stewart siano sempre molto ardui da interpretare, in particolare perché si basano su dati difficili da confermare (quanti colpi di testa ha effettuato in vita sua un calciatore professionista?), oppure confrontano calciatori e non calciatori. Personalmente, non creerei allarmismo attorno a questo tema, anche se occorre restar vigili. Piuttosto, sarebbe importante che tutti gli attori impegnati in un contesto sportivo – atleti, allenatori, medici e fisioterapisti – fossero in grado di riconoscere i sintomi di una vera commozione cerebrale per applicare i protocolli esistenti e togliere dalla competizione l’atleta infortunato».

L’hockey, altro sport molto popolare, nella lotta alle commozioni cerebrali è assai più avanti rispetto al calcio...
Nell’hockey se ne parla da tempo, tutti sono informati sul problema, fin dalle categorie giovanili. Il personale è istruito sulla prevenzione, sul trattamento e sul protocollo da seguire prima di un eventuale ritorno in pista. Nel calcio, invece, si è rimasti piuttosto indietro, forse perché si ritiene che si tratti di episodi rari. Ma chi non ricorda, per esempio, il caso di Christopher Kramer, vittima di un fortuito quanto violento colpo alla testa in uno scontro di gioco con l’argentino Ezequiel Garay nella finale mondiale del 2014? Kramer venne sostituito soltanto dopo che l’arbitro italiano Rizzoli aveva riferito al capitano Schweinsteiger che il giocatore gli si era avvicinato chiedendogli se quella fosse davvero la finale dei Mondiali. Della mezz’ora disputata, Kramer non ha più alcun ricordo. L’evidente commozione cerebrale subita avrebbe dovuto essere identificata immediatamente, impedendo al giocatore di tornare in campo. Sotto questo aspetto nel calcio, come anche in altre discipline, si tende a sottovalutare il problema.

Gli attuali studi si soffermano su aspetti meno traumatici, come il colpo di testa...
Si sta cercando di valutare l’impatto dei traumi cranici subclinici, vale a dire quei traumi che non sfociano in una vera commozione, ma che si suppone siano in grado, se ripetuti nel tempo, di portare allo sviluppo della Cte. Molti studi si sono chinati sul problema, ma i risultati non sono univoci. Circa la metà, infatti, indica un’incidenza aumentata di neuropatie cerebrali nei giocatori di calcio o in coloro i quali hanno subito più colpi in testa durante la loro carriera, mentre un’altra metà di studi giunge a una conclusione opposta. Secondo quanto pubblicato dall’autorevole ‘British Journal Of Sports Medicine’, gli studi a favore della pericolosità dei colpi di testa sarebbero però metodologicamente meno precisi.
Si dovesse un giorno provare una relazione diretta, occorrerebbe correre ai ripari.

Che fare? Proibire i colpi di testa almeno a livello giovanile?
Bisognerebbe probabilmente giungere a un cambiamento delle regole, ma un paio di precisazioni vanno comunque fatte. È vero che tra i ragazzi le commozioni cerebrali vanno affrontate in maniera più aggressiva, ma è altresì innegabile che la velocità e il peso del pallone sono minori. Inoltre, è molto importante la funzione preventiva di una buona muscolatura del collo, oltre all’aspetto del gesto tecnico da allenare. Non possiamo certo pensare di proibire i colpi di testa fino a 18 anni e poi renderli legali da lì in avanti: verrebbero a mancare le basi muscolare e tecnica. Si potrebbe pensare di preparare i muscoli con altri esercizi e la tecnica con palloni molto leggeri, ma si sta andando un po’ troppo in là. Al momento, lo ripeto, non è il caso di fare allarmismi.

Per le commozioni vere e proprie esistono protocolli che, se applicati, dovrebbero per lo meno impedire il ritorno in gioco di chi ha subito un possibile trauma cranico...
La recente Conferenza internazionale sulle commozioni cerebrali nello sport, giunta al quinto convegno, ha stilato un protocollo da seguire, ma questi test non sono infallibili. E non dimentichiamo che, molto spesso, sono gli stessi giocatori, in preda a trance agonistica, a rifiutare le indicazioni del medico e a voler tornare immediatamente in gioco.

Nel calcio la testa è esposta a ogni sorta di colpo, mentre nell’hockey e nel football è protetta da un casco. La cui efficacia, però, è molto discutibile...
Nell’hockey il casco può proteggere dall’impatto con un puck, così come nel football previene ferite lacero-contuse. Ma sui colpi che in genere provocano commozioni cerebrali il casco non ha effetto alcuno. Nell’hockey uno scontro testa contro testa o un check violento alla balaustra rendono inutile la protezione, così come nel football, quando le collisioni avvengono casco contro casco, o quando la testa cozza violentemente sul campo da gioco. Negli Stati Uniti è allo studio, a livello di leghe giovanili, un casco da hockey nel quale è stato inserito un accelerometro in grado di misurare l’energia rilasciata da un contatto: se questa dovesse superare una soglia prestabilita si riterrebbe il colpo troppo forte e causa di una probabile commozione, per cui il giocatore verrebbe immediatamente tolto dal ghiaccio. Non sempre, però, l’energia prodotta basta per stabilire la presenza di un trauma: molto dipende dalla preparazione all’impatto e dalla capacità di ammortizzare il colpo con i muscoli del collo. Progressi tecnologici come questo possono essere utili, ma a mio modo di vedere fondamentale rimane l’occhio clinico, la capacità di cogliere i sintomi e l’autorevolezza per farsi ascoltare da allenatori e, soprattutto, giocatori.

Calcio, hockey, football, ma anche rugby o pugilato sono discipline soggette a com­mozioni cerebrali. Com’è la situazione negli altri sport?
Importante è istruire gli allenatori, le allenatrici e tutto lo staff anche a livello di discipline nelle quali la commozione cerebrale non rappresenta un fenomeno frequente. Nessuna disciplina può ritenersi completamente al riparo da traumi alla testa. Prendiamo per esempio il nuoto sincronizzato: coreografie sempre più audaci comportano il lancio in aria delle atlete, le quali può succedere che nel rientro in acqua vadano a sbattere la testa contro le compagne...

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