L'INTERVISTA

A corsa e nuoto tra le isole svedesi. L'idea 'folle' di due ticinesi

Stefania Bonetti e Sabina Rapelli raccontano: "Avevamo conquistato insieme il biglietto per il Mondiale di swimrun. Poi quell'infortunio...”

21 novembre 2018
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Si stringono in silenzio. Avrebbero forse tante cose da dirsi, ma le emozioni sono ancora troppe. A esprimersi sono un lungo abbraccio e gli sguardi. Un po’ impacciati, quasi sfuggenti, all’inizio; più rilassati e complici man mano che liberano le parole. Avrebbero dovuto condividere una sfida un po’ folle, nata quasi per caso: correre la Ötillö in Svezia, considerato il Mondiale di swimrun. Il sogno di un’avventura pazzesca è però svanito in un caldo giorno d’agosto su una strada del Piano di Magadino. Durante un allenamento le loro biciclette si toccano: Sabina, «non so come», resta in sella; Stefania rovina pesantemente a terra. Sbatte la testa tanto da rompere il casco e rimedia diverse escoriazioni, ma capisce che c’è dell’altro. La diagnosi arriva dopo alcuni giorni. I dolori inizialmente attribuiti alla botta, sono invece causati da una microfrattura del capitello radiale.

La crepa nell’osso spezza il cuore di Stefania («ho capito che in Svezia non sarei potuta andare») e separa il percorso sportivo di queste due donne che più diverse non potrebbero sembrare; capaci però, di questa differenza, di farne una forza. Mesi dopo Stefania, raccontando l’episodio e le settimane seguenti, ancora non trattiene le lacrime e se ne scusa. «Non smettevo più di piangere», dice timidamente con un sorriso che mal cela amarezza e tristezza. «Mi era caduto un po’ il mondo addosso. E niente – sospira –, è andata così». Sabina le appoggia una mano di conforto sul ginocchio. «Sapevo e so molto bene quanto le abbia fatto male rinunciare». Se la compagna ha dovuto digerire un ritiro amaro, lei i conti li ha fatti con il senso di colpa. «Quando si è infortunata era con me. È capitato per un errore quasi mio: ci siamo toccate e lei è caduta». Sceglie le parole con cautela e le mette in fila in punta di piedi; come se di fronte al dolore dell’amica, i suoi travagli fossero poca cosa. Perché per finire Sabina in Svezia è andata, non dopo giorni di travaglio. «Si trattava di decidere cosa fare: rinunciare entrambe o andare solo io. Ne abbiamo parlato un po’ insieme. Ma – ammette con pudore – quell’episodio ci ha un po’ divise». Però Stefania non l’ha mai ritenuta responsabile. «Eravamo in due... – sussurra a fatica – Certo ti dici che se fossi stata da sola, non sarebbe successo. Le domande te le poni; ma è capitato e basta».

La prima volta in mare aperto: ‘Traumatico’

Si conoscono a febbraio tramite la pratica sportiva e quasi subito nasce l’idea di partecipare alla tappa engadinese del circuito Ötillö, serie di gare che fungono anche da qualificazione al Campionato del mondo. Quando possono, si allenano assieme: sessioni di nuoto, uscite a corsa o con gli sci di fondo. Si iscrivono a una prima gara (in aprile a Nizza), da affrontare a mo’ di preparazione: 21 km di corsa, 7 di nuoto. «Per noi era già tanto» spiega Stefania. «Io non avevo mai nuotato tale distanza – aggiunge Sabina –; ci spaventava un po’ farlo in mare aperto. E in effetti fu abbastanza traumatico: le tratte erano lunghe, intervallate da una corsa breve e l’acqua era gelata». Partono pensando di suddividersi i compiti: Sabina, più forte a corsa, avrebbe dato il ritmo nelle distanze di running. «Io lo avrei fatto in acqua. Però patisco moltissimo il freddo – indica Stefania – e nelle ultime tratte non avanzavo più; quindi ha tirato anche lei». In quei momenti, racconta Sabina, si prova solo a motivare la compagna in difficoltà. «Il freddo ti consuma tutte le energie e nello swimrun si prende freddo ogni tratta a nuoto: ciò rende tutto ancor più difficile».

Freddo, fatica, sfinimento: avranno mai pensato “ma chi me lo fa fare?” Ridono. «Sì magari a colazione alle 4 di mattina» dice Stefania «e anche – aggiunge Sabina – alla partenza, al freddo. Durante gli allenamenti invece prevale la motivazione. Se te lo chiedi lì, significa che non ti piace ciò che fai». Nuove della disciplina, a Nizza si erano prefissate il semplice (si fa per dire) obiettivo di giungere al traguardo. «Per arrivarci, in una disciplina così estenuante, pensi e affronti una tratta alla volta». Dopo quella gara – prosegue Stefania – si dicono che avrebbero potuto tentare il percorso lungo in Engadina: 40 km a corsa (1’500 m di dislivello attivo) e 6 a nuoto. In maggio s’iscrivono così a un’altra competizione di preparazione nel Giura francese: 30 km a corsa, 4 a nuoto. Unica coppia di sole donne, battono diverse coppie miste e alcune di uomini. La gara in Engadina si svolgerà poi in ottime condizioni meteo. La corsa prevede diversa salita e l’acqua dei laghetti alpini è molto fredda. Si nuota con una speciale muta intera o, come loro, al ginocchio; tenendo le scarpette, un modello leggero da trail e con un galleggiante tra le gambe. Partite con uno scopo e un sogno, realizzano entrambi: completare il tragitto entro le 7 ore e qualificarsi per la Svezia. È andata bene, commentano. Finiscono al 9° posto, dietro sette coppie che avevano già il biglietto per i Mondiali.

L’accesso alla gara più ambita le pone davanti a un primo bivio. Sabina nel frattempo si era qualificata per i Mondiali di triathlon distanza media (triathlon? «Correvo per allenarmi». Ah ecco), in programma lo stesso giorno della gara in Svezia, ma in Sudafrica. «Un po’ d’istinto ho scelto la Svezia. Nello swimrun il livello è altissimo e la qualificazione più difficile; inoltre avevo condiviso un percorso con Stefania».

Una decisione sofferta

Il secondo bivio si presenta con l’infortunio e l’imbocco forzato di strade diverse non è facile per nessuna. Stefania si chiude in se stessa, Sabina comprende e non gliene fa una colpa. «Per come sono io, al suo posto forse l’avrei cercata di più. Lei non l’ha fatto, ma in questi casi ognuno reagisce a modo suo, in base al proprio carattere». Una volta deciso che avrebbe partecipato all’Ötillö svedese («non senza pormi parecchie domande: sarei stata sola in un Paese per me nuovo, non conoscevo nessuno, non sapevo con chi avrei gareggiato»), Sabina chiede all’amica se la voglia accompagnare. «Pensavo potesse essere bello condividere il momento, seppure in modo diverso da come avevamo sperato». Stefania sulle prime accetta: «Avrei voluto andare per lei, ma essere là e non poter correre m’avrebbe fatta stare ancora peggio». La crepa nel cuore è ancora dolorosa, la voce si affievolisce e si scusa un’ennesima volta. «Mi dicevo che a ruoli invertiti, non so se sarei riuscita ad andare senza di lei. Ma – guarda Sabina negli occhi, sorride, le parole si strozzano in gola – capisco benissimo che tu sia andata. Un po’ temevo la tua reazione alla mia rinuncia». Sabina la tranquillizza: durante ore e ore di allenamenti «ho imparato a conoscerti: so quanto sei diversa da me. Non c’è nessuna ruggine».

Quel giorno di settembre conquistato insieme, lo vivono separate. Solo pochi mesi prima Sabina non avrebbe «mai pensato di partecipare a una competizione del genere» ed è orgogliosa. «Sul traguardo mi sono detta: “Ma cosa ho fatto?!”; anche perché mi sono sentita sola. Non è una gara qualsiasi: mi sono superata, ho vinto la mia sfida». E sola, per quanto supportata dalla mamma che l’accompagna, è pure Stefania. «Sono partita un paio di giorni, avevo bisogno di staccare mentalmente. Però il giorno della gara guardavo continuamente la sua posizione col cellulare. Al mattino, vedendo il tempo bellissimo, le avevo lanciato un “ma va...”». Pronuncia l’invettiva per intero, guarda l’amica e nello stesso momento entrambe scoppiano in una fragorosa risata. La gara non l’hanno corsa assieme, eppure la sfida l’hanno vinta in due.

‘Da sola verso una pazzia. Ma sapevo di potercela fare’

Il traguardo, quasi un miraggio nell’alba svedese, si chiama Utö. È una delle innumerevoli isole dell’arcipelago di Stoccolma, che per Sabina Rapelli non è una qualsiasi. È il punto d’arrivo di una gara classificata nel 2012 tra le più dure di endurance al mondo, meta di un percorso iniziato mesi prima. «Un percorso lungo – racconta –: tante ore di preparazione, moltissime nuove conoscenze e parecchie emozioni».

In questo giorno che sta per nascere, le condizioni sono perfette: temperature non troppo basse, cielo sereno, acqua fredda ma mare calmo. La sfida che attende lei e la compagna (si corre a coppie) ha numeri impressionanti: 75 chilometri “ö till ö” cioè “da isola a isola” in svedese. Da qui il nome della competizione, disputata per la prima volta nel 2006 e che ha in pratica dato via allo swimrun. Da Sandhamn si attraversano 24 isole, correndo in totale 65 km su un terreno tecnico e impegnativo, che in gara provocherà parecchie cadute, e nuotandone 10 in acque aperte.

Al risveglio, sono le 3, ci sono «preoccupazione, adrenalina e ansia per ciò che ci aspetta. Una volta in partenza, però, siamo prontissime e non pensiamo ad altro che al traguardo». Considerata il Campionato mondiale di swimrun, è «una sfida con sé stessi, contro le proprie paure, fatica, dolori muscolari. Non basta un fisico allenato: occorre un mentale consistente e tanta forza di volontà da trasmettere a te e al compagno. Io di certo non ero pronta di testa; ma sono partita da sola verso qualcosa che molti consideravano una pazzia, poiché sapevo di potercela fare».

Dopo quasi 11 ore di sforzo Sabina e Cassandra (conosciuta a Stoccolma solo due giorni prima, nella foto l’abbraccio al traguardo) chiudono al 13° posto in campo femminile e 91e assolute; ma par di capire che la classifica non sia la ricompensa più grande. «Non so spiegare cos’ho pensato negli ultimi metri, forse la mia mente s’è spenta. Descrivere le sensazioni è impossibile: è stato fantastico, un momento indimenticabile».

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