Racconto della settimana

Non di più colpo che Soave vento

24 settembre 2015
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Il Francesco Soave era invecchiato male durante la mia assenza: il tempo e l’incuria avevano favorito la crescita selvaggia della vegetazione nel cortile del Collegio e liberato dai vetri diverse finestre, permettendo a tende logore e tristi di scatenarsi al ritmo dell’immancabile vento della Turrita. L’intonaco pendeva a brandelli come la pelle di un serpente durante la muta. Un vero peccato per la storia di Bellinzona ma una fortuna per chi, come me, doveva introdursi all’interno dell’edificio senza essere notata. Fu così che nell’inverno del 2014 trascorsi parecchie ore nel vecchio Collegio, a volte di notte ma, per prosaiche questioni di coraggio, più spesso durante il giorno, a rovistare tra le quinte del vecchio teatro. E in un grigio pomeriggio di aprile, aprendo una polverosa cesta di vimini, trovai finalmente, nascosto da vecchi vestiti di scena, quello che cercavo: l’Inferno di Dante, nell’edizione Mussi in sedicesimo, pubblicata a Milano nel 1808. Ai margini di alcune pagine scorreva una scrittura precisa e ordinata, sicuramente il testamento di Pietro Caimi, di cui la nonna mi aveva parlato esattamente dodici anni prima all’Ospedale San Giovanni. Devo confessare che, quel giorno, oltre a sottrarre al Collegio il tomo della Divina Commedia, vi lasciai pure un piccolo incendio involontario, divampato da una sigaretta che l’incredibile scoperta mi aveva fatto dimenticare accesa accanto a un abito bianco in stile vittoriano. Va detto che l’incendio fu subito domato dai pompieri della città e che la sua responsabilità fu addebitata a un gruppo di ragazzi, tuttora senza un nome, che, come me, aveva l’abitudine di far rivivere quel luogo abbandonato con avventurose incursioni. Trascorsi le ore successive completamente immersa nella lettura: la vita di Pietro Caimi sembrava uscita da un feuilleton di metà Ottocento, un Conte di Montecristo nostrano all’inseguimento della sua spietata vendetta. Sulla pagina bianca del retro del frontespizio, Pietro raccontava la sua infanzia: frutto di una relazione extraconiugale, era stato deposto in un cavagno davanti alla Chiesa di Santa Maria a Lugano, accolto dall’omonimo Ospedale e trasportato clandestinamente, ma con il tacito benestare delle autorità ticinesi, nel brefotrofio di Como. Il bimbo eccezionalmente sopravvisse e, ancor più eccezionalmente, venne adottato all’età di cinque anni da una ricca famiglia comasca che, oltre al nome, gli diede un’ottima educazione. Tanta era la gratitudine di Pietro verso i suoi nuovi genitori, tanto l’odio verso le circostanze che fino a loro lo avevano condotto. Odio che guidò tutti i suoi passi attraverso l’inferno, trascinando con sé morti e dolore.

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