Racconto della settimana

Non di più colpo che Soave vento

22 settembre 2015
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Il caso è sicuramente la via che Pietro Caimi scelse per rimanere anonimo. Almeno fino a un anno fa. O meglio, fino all’aprile del 2002, quando il suo nome scivolò per la prima volta tra le sbarre del tempo e del letto dell’Ospedale San Giovanni di Bellinzona dove era stata ricoverata mia nonna. Nelle ultime settimane le sue condizioni di salute si erano aggravate: non ci voleva una laurea in geriatria per capirlo e quindi ascoltai con irritazione la spiegazione didascalica del confine tra cure necessarie e accanimento terapeutico che, incontrandomi sulle scale, mi diede la dottoressa. Come sempre, mia nonna aveva su di me l’effetto sedativo della camomilla. Fu quindi sufficiente entrare nella sua camera per calmare l’arroganza dei miei 18 anni e dimenticare le riflessioni etiche sui pazienti in limine vitæ. Tanto più che, quella sera, la sua voce riusciva a imporsi su tubi e tubicini, schermi intermittenti e segnali acustici di vario tipo. Con lei ero cresciuta a pane e storie di altri tempi e ormai i suoi personaggi erano diventati anche i miei. La sua ava, cieca da molto tempo, che volendo condividere la gioia della nipotina, toccava e accarezzava le scarpe che mia nonna avrebbe indossato al matrimonio; il mago di Lodi, calato in una fossa del Ristorante Antico di Castione per battere il primato di permanenza sotterranea e uscitone indenne dopo una settimana, salvo poi scoprire che ogni notte risaliva dalle profondità della terra per fare bisboccia con il gerente; il Babau, creatura leggendaria mostruosa incaricata di punire i bambini insofferenti alle corroboranti minestre e ai salubri clisteri. Quella sera, all’ospedale, un nuovo personaggio cominciò a ruotare nella giostra dei ricordi della mia famiglia. Si trattava di tale Pietro Caimi, bisnonno di mio nonno, classe 1823. In quella circostanza, le informazioni furono poche e frammentarie ma più che sufficienti a lasciare una traccia indelebile nelle mie sinapsi. Dalle parole di mia nonna si intuiva chiaramente che la vita di Pietro era avvolta nel mistero e che il suo armadio doveva contenere più scheletri che eleganti redingote. E ancora: colto in tarda età da un impellente desiderio di redenzione, il vecchio aveva scritto le sue memorie a margine del suo libro preferito, l’Inferno di Dante, nascosto poi per prudenza nel teatro del Collegio Alighieri di Bellinzona, del quale aveva largamente sovvenzionato la costruzione.

Mia nonna morì una settimana dopo l’entrata in scena di Pietro Caimi e, a dodici anni di distanza, le mie mani sfogliavano tremanti la confessione di un assassino. Tre delitti e un unico complice: il caso, che aveva protetto con ostinazione la lunga vita di Pietro.

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