Impact Journalism

Lo yoga serve per 'evadere' di prigione

In un penitenziario di Buenos Aires, in Argentina, la disciplina indiana favorisce il rientro nella società dei detenuti

(Foto Fernando Massobrio)
16 giugno 2018
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Adho mukha. Chaturanga. Uttanasana. Termini che stanno diventando parte del gergo carcerario in Argentina, grazie ad un gruppo di giovani istruttori di yoga che ha creato il progetto “Moksha – yoga in carcere”.

In una giornata di sole, è possibile sentire frasi come “mani davanti al cuore”, “aprite il petto”, “ora, cobra” ed “espirate entrando in un affondo alto” nel cortile della 48esima unità penitenziaria della prigione di stato di San Martín a Buenos Aires.

Seguendo queste istruzioni, 30 detenuti a piedi scalzi cercano di imitare in silenzio le posizioni che un’istruttrice, Milagros Colombo, mostra con delicatezza. Dietro di loro, un murales colorato, dipinto dai detenuti con degli obiettivi specifici in testa. Gratitudine, forza di volontà, pazienza, responsabilità, libertà e pace sono alcune delle parole che si leggono.

«Durante le due ore di lezione, ti dimentichi dei tuoi problemi. Facciamo la posizione dell’asse, del cane a testa in giù, chaturanga e al termine ci sentiamo sollevati, rilassati. A fare yoga ti senti libero; lasci il mondo alle spalle per due ore. Sei talmente concentrato che non vuoi che la lezione finisca», racconta Lucas Roldán, un detenuto 33enne, che ha trascorso gli ultimi otto anni in prigione.

Come lui, 250 reclusi partecipano alle lezioni di yoga organizzate da Moksha dal 2015 in due unità della prigione di San Martín, con lo scopo di trasformare delle vite nel presente e nel futuro. L’idea è nata dal desiderio degli istruttori di condividere i benefici dello yoga con i più vulnerabili.

«Tutti noi istruttori viviamo e respiriamo lo yoga ed è un tesoro così prezioso per noi che ci siamo chiesti dove potevamo condividerlo – afferma la 29enne Colombo ­–. Il settore carcerario è trascurato sotto molti aspetti. Per cui, se questi uomini possono sfruttare al meglio il loro tempo qui, avranno più opportunità una volta usciti e noi avremo dei vicini di casa migliori».

Questo penitenziario è uno studio di contrasti. Serrature, sbarre, recinzioni di filo spinato e guardie in uniforme caratterizzano l’area di reclusione; mentre l’ordine del posto, con i suoi grandi giardini, ben tenuti, crea un inaspettato senso di pace. I detenuti dietro le sbarre salutano i volontari Moksha che passano per i corridoi, ma non possono stringer loro la mano. 

Roldán sa che lo yoga gli ha cambiato la vita. Per questa ragione aspetta con ansia la lezione settimanale ogni giovedì. Certe mattine, si incontra persino con altri compagni per esercitarsi nelle posizioni. «È molto più piacevole in questo momento della giornata perché si sentono gli uccelli cantare. Le persone spesso pensano il peggio di noi perché siamo stati arrestati per furto o per aver ucciso un agente di polizia. E forse pensano che dovremmo essere lasciati a marcire in questo posto. Io ho raggiunto un profondo cambiamento qui».

Roldán fa parte di un gruppo di reclusi di massima sicurezza che a volte accompagnano i volontari Moksha a insegnare yoga nei reparti di media sicurezza. Qui, incontrano i molestatori sessuali, i quali hanno in particolar modo una brutta reputazione tra i detenuti. «È stata un’altra porta aperta. Questo significa reintegrare, come ha detto Papa Francesco, non dovremmo discriminare; siamo tutti esseri umani. Quando mi hanno invitato, non ho esitato. Siamo tutti carcerati, loro hanno i loro problemi e noi abbiamo i nostri. Ci è stata data un’opportunità e volevamo darne una anche a loro», dice Roldán.

Il progetto continua a crescere dal momento che i detenuti di altri reparti chiedono di avere accesso alle lezioni, comprese le donne nell’unità 47.

Gabriel Márquez Ramírez è appassionato di yoga. «Due anni fa, gli istruttori sono venuti ad insegnarci la filosofia che si cela dietro allo yoga e il suo impatto positivo. Io mi esercito ogni giorno perché mi piace; ti fa concentrare, ti rilassa, porta via i pensieri negativi, serve sia al corpo che alla mente. Amo fare yoga», rileva il detenuto 24enne aggiungendo che spera di diventare istruttore un giorno. «Purifica mente e corpo, impari a nutrire meglio te stesso e diventi una persona migliore. Qui, l’atmosfera è completamente cambiata».

Al momento, sono 20 gli istruttori che si sono offerti volontari per il progetto Moksha, il quale mira ad acquisire lo status di organizzazione no-profit. Per ora, è interamente finanziato da donazioni private, con l’intento di estendersi.

«Lo yoga porta con sé una grande dose di autoconsapevolezza e la possibilità di essere presente in corpo, mente e respiro è liberatoria. [In sanscrito] la parola moksha significa libertà interiore attraverso la presenza. Lo yoga ci libera dallo stress, genera la pace della mente e ci aiuta a vivere un momento di presenza, di modo che possiamo decidere come agire, parlare, pensare e reagire. È questo il nostro obiettivo», osserva Colombo.

Il suo sogno, un giorno, è di insegnare esclusivamente nelle prigioni e di farne il suo lavoro a tempo pieno. «Tutto ha origine da un senso di vocazione e abbiamo bisogno di maggiore sostegno per far crescere il progetto – dichiara –. Ci piacerebbe creare un programma di formazione in prigione, di modo che i detenuti possano diventare istruttori e venire a lavorare con noi una volta usciti, come forma di reintegrazione sociale. Con la loro esperienza, sarebbe facile per loro insegnare in altre prigioni, in quanto prove viventi di cosa si può raggiungere se si desidera vivere in modo diverso».

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