Ticino7

Con il cotone bio il pianeta ringrazia

Un recente saggio ci permette di riflettere sulla storia e il futuro di questa comunissima fibra naturale

29 settembre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Costretti a lavorare in condizioni disumane, uomini e donne di colore nelle piantagioni di cotone americane sostenevano le loro fatiche con canti ritmati ed esplosioni vocali. Canti che, raccontando la vita giornaliera degli schiavi e il loro desiderio di libertà, rivelavano pure un legame con la loro terra di origine. Un grido di dolore – e nel contempo di consolazione – per trovare la forza di sopravvivere. 

Ebbene, se la coltivazione del cotone fece la fortuna di latifondisti, industrie e mercanti, ha purtroppo anche una storia tinta dal sudore e dal sangue di tanti esseri umani. Una storia di potere e di avidità, di dolore e violenza intrecciati in un «tessuto» fatto delle necessità dei fruitori del mondo intero nel quale è inclusa la moda. Perché cotone significa pur sempre materia prima per creare panni e stoffe per abbigliarsi e addobbare. 

Una storia che racconta anche l’industrializzazione della produzione moderna e, finalmente, negli ultimi anni, l’illuminata ricerca di nuove forme di coltura e lavorazione più sostenibili. Auspicato traguardo raccontato in un testo esemplare dal titolo 100% Made in Cotton. Cotone e moda sostenibile di Massimiliano Milone (Ed. Mario Luzi, 2017). Nel saggio l’autore si propone di illustrare le sfide future del cotone biologico, partendo però da una panoramica sulla produzione e sul commercio di quello tradizionale. Indispensabile quindi una passeggiata tra le piantagioni del passato. 

Un tessuto (anche) problematico

Il viaggio nel mondo dei batuffoli inizia circa 9’000 anni fa in India, fa tappa in Sicilia nel IX secolo grazie ai Saraceni, e arriva in tutta Europa intorno al XIII secolo per poi insediarsi negli sconfinati campi d’America. Una lunga epopea che ha attraversato secoli e continenti. Difficile da filare e tessere, il cotone rimase per lungo tempo un tessuto di lusso come la seta. Tuttavia è denominato il «maiale» della botanica, poiché non se ne butta via niente: dalle fibre ai semi alle bucce degli stessi, dai fusti alle foglie.

Ma «l’oro bianco», come veniva chiamato un tempo, è soggetto a numerose insidie fin dalla sua coltivazione: il clima non deve essere né troppo caldo né troppo freddo, non può sopportare troppa acqua o riceverne poca, deve sfuggire alla grandine e alla tempesta e potersi riparare dal vento. Inoltre deve combattere con eserciti di parassiti sempre pronti ad attaccarlo e, finalmente maturo, va raccolto da mani esperte. E se i maggiori produttori di fibra di cotone sono India, Cina, Stati Uniti, Pakistan, Brasile, i paesi dell’Africa francofona, Uzbekistan e Turchia, la sua lavorazione, confezione e successivo commercio (competenze del settore tessile) lo portano a un giro completo del mondo. Difatti può succedere che la fibra proveniente dall’Uzbekistan venga filata in Turchia e che il tessuto, completato in Italia, venga stampato in Francia con colori cinesi... ahinoi.

E proprio parlando della sua lavorazione non si può fare a meno di sottolineare che l’industria del cotone è sempre stata accusata di violazione dei diritti umani. La paga mensile di un lavoratore del Bangladesh è inferiore al prezzo che un occidentale paga per un paio di jeans, cioè circa 60 dollari. E che dire dello sfruttamento del lavoro minorile? Sembra che intorno al cotone e alle sue innegabili qualità si annidino dei lati oscuri. La sua storia è molto antica, ma quale sarà il suo futuro?

Biologico, cioè?

Oggi più che mai il cotone viene messo in discussione: i media e l’opinione pubblica spesso gli imputano un eccessivo consumo di acqua, alti livelli di pesticidi, nonché i già citati abusi sul lavoro. Inoltre una certa politica sostiene che la sua coltivazione tolga terreno utile per produrre cibo. Ma c’è anche chi afferma che tra le tante sfide dell’agricoltura moderna, quella del cotone possa rappresentare un’ottima scelta. Un problema che diventa parte della soluzione? Documentati esempi lasciano sperare in tal senso, pronosticando un orientamento verso il biologico. Ma cosa si intende poi per cotone biologico? Premesso che la dicitura è tipicamente italofona mentre nel resto del mondo si parla di cotone organico, la definizione indica che la fibra è stata coltivata senza l’utilizzo di prodotti chimici, bensì usando concimi atossici. Per quanto riguarda il processo tessile, questo deve svolgersi secondo gli standard internazionali del GOTS (Global Organic Textile Standard) che mette al primo posto l’individuo, meritevole di condizioni di lavoro e salari dignitosi. Presupposti per una moda sostenibile capace di coniugare l’etica al gusto e all’estetica. 

Al momento il 99% del cotone mondiale è di tipo tradizionale; il benvenuto restante 1%, composto da fibra organica, è prodotto da diciannove paesi, con l’India al primo posto seguita dalla Cina. La posizione leader indiana è purtroppo resa fragile a causa della presenza sul territorio di semi geneticamente modificati (OGM) che ostacolano l’accesso a una buona qualità di sementi bio.

La moda sostenibile

L’analisi condotta da Milone nel suo interessantissimo volume conferma però che la domanda di biologico da parte dell’industria tessile è in continuo aumento, proprio mentre si ipotizza uno scenario globale totalmente sostenibile. Quindi è necessario fare molto in fretta nel ridurre gli impatti sociali ed ecologici della fibra rivedendo, per esempio, i sistemi di coltura, iniziando a ripristinare l’alternanza di colture a rotazione, pratica saggia e lungimirante del secolo scorso.

Intanto, marchi di moda di ogni livello dichiarano che nel prossimo futuro il 100% del cotone da loro utilizzato sarà solo organico e certificato tale. Forse una dichiarazione di buoni intenti non è sufficiente per definire green un’impresa, ma è importante mettere in evidenza il nuovo approccio etico al business. La moda sostenibile è una moda bella fuori e dentro: indossare un capo che non ha memoria di sofferenza e di ingiusto dolore è senz’altro più confortevole e in sintonia con il rispetto dell’ambiente e di ogni essere.

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