L'editoriale

‘Il silenzio è un altro silenzio’

5 dicembre 2016
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C’è un’immagine, affrescata da Giovanni Orelli, ne ‘L’anno della valanga’ che mi è tornata in mente in queste ore. Quella del dialogo fra il vecchio e il giovane. Lassù in valle il momento è grave: si deve decidere se lasciarla o meno. La valanga si fa sempre più minacciosa. ‘Una valanga di primavera non è roba da scherzare’. Arriva dunque l’ordine da Bellinzona: bisogna evacuare. Gli abitanti si riuniscono in assemblea e ascoltano le indicazioni del gendarme che veste per l’occasione la divisa della festa. Il paese si spacca in due partiti, ‘dapprima sotto sotto, poi ferocemente avversi’. Il vecchio si rivolge ai convallerani. Il momento è grave, persino ‘il silenzio è un altro silenzio’, il suo corpo ‘nella posizione che ha in chiesa quando si è al Vangelo’. L’anziano – che, se fosse al posto dei giovani, forse ragionerebbe come loro – come tanti altri vecchi, non vuole lasciare la valle ‘la nostra casa, i nostri prati, i luoghi, i nostri morti’. Sa bene che i tempi sono cambiati: lui era stato abituato a ‘ubbidire e filar diritto’ di fronte ai suoi vecchi, a fare come le nostre umili donne ‘use fin da presto ad abbassare il capo a quello che la vita manda’, a ‘sopportare in silenzio senza bastardare il passato e la fede’. Il vecchio è cosciente che dalla valle c’è già chi negli anni passati è andato via a vendere ‘quattro castagne’ alla gente all’uscita dai teatri. Ma poi tanti sono tornati, uno persino dall’America ‘che incensava’. E alla domanda sul perché fosse tornato ‘a star male’ disse: ‘Sono tornato perché là nevica’. E giù neve: anche là. Al dire del vecchio, puntuale replica il giovane: ‘Sappiamo già come vanno le cose: restate attaccati alla vostra bella terra, al vostro nobile lavoro, come i padri che fondarono e fecero forte la patria, noi siamo qui per aiutarvi. Aiutarci una bella merda, per cui a furia di promesse (…) mai mantenute, mi domando se siamo uomini o tolle da petrolio…’. E poi: ‘Quella di farmi star qui per i begli occhi dei politicanti, che non vogliono, dicono loro, veder morire le nostre belle valli, i nostri bravi contadini, pei ricconi che le domeniche d’agosto vengon su a buttar giù la loro pancia in mezzo all’erba, dei nostri prati mondati, insieme con le loro vacche ossigenate (...), questa proprio no’. In questa parte del dialogo affiora tutta la tensione respirabile allo storico bivio: radici, tradizioni, memoria, da una parte; cambiamento, rottura, voglia di modernità, dall’altra. Una tensione che non è solo fotografia di un passato remoto, ma è anche percezione della vita che scorre e che – l’altroieri come ai giorni nostri – torna a riproporre bivi e crocevia. Le valanghe incombenti non sono solo quelle pericolose per la troppa ‘fioca’ sui pendii. Di valanghe ne sono scese tante altre anche dopo la pubblicazione del romanzo e altre incombono. Tante altre, che forse nemmeno più osiamo alzare lo sguardo. Sul nostro cammino tiriamo dritto, incrociamo le dita, che ci vada bene. Anche perché il gendarme – che viene a leggere l’invito del governo a chiederci di lasciare la valle – non c’è più. E non c’è nemmeno più una comunità così unita, capace di riunirsi a dibattere e decidere. Il bivio, tratteggiato in un romanzo del 1965, merita quindi di essere apprezzato per la sua capacità di evidenziare valori che – pur passando generazioni ed epoche – mantengono tutta la loro centralità. Sono le questioni di fondo dell’uman genere. Resto, vado, cambio, torno, riparto. Vita, morte. Un esercizio di rilettura che – aggiungo – andrebbe fatto, pensando anche oltre i confini del nostro fazzoletto di terra cantonale. I nostri avi, figli della civiltà contadina e alpestre al tramonto sotto la neve, sono stati anche gente con la valigia in mano. Partivano. Fra forti nostalgie e forti speranze. Come chi oggi da noi bussa.

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