L'editoriale

La credibilità non ha prezzo

16 gennaio 2015
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O era sbagliata la decisione del 6 settembre 2011 di fissare una soglia a 1,20 franchi per un euro, o è sbagliata quella di ieri di togliere tale argine. Una terza possibilità non è data. L’unica certezza è che da subito i beni e servizi svizzeri sono più cari del 15% circa e non solo nei confronti dell’eurozona, ma anche nei confronti del dollaro statunitense, che ieri mattina, in contemporanea con l’annuncio della Banca nazionale, è sceso fino 0,7462 franchi per un dollaro per poi risalire fino a 0,8780 franchi. E pensare che fino a pochi giorni fa lo stesso Thomas Jordan ha ribadito per l’ennesima volta che la soglia dell’1,20 per euro era il pilastro principale su cui si basava la politica monetaria svizzera. Lo scorso 18 dicembre il Direttorio della Banca nazionale aveva deciso di prelevare, dal 22 gennaio prossimo, un tasso di interesse negativo su una parte dei depositi che le banche commerciali detengono presso l’istituto centrale. Da sottolineare il fatto che proprio il 22 gennaio la Banca centrale europea dovrebbe annunciare – il condizionale è a questo punto inutilmente prudente, perché lo farà anche senza il consenso della Germania – una ulteriore espansione della massa monetaria con il lancio di un piano di acquisti di titoli di debito pubblico e privato. Quel piano che passa sotto l’erroneo concetto di ‘quantitative easing’. Erroneo perché a differenza dei piani di acquisto della consorella Fed appena conclusi, la Bce non può per statuto intervenire sul mercato primario. Ovvero non può di fatto finanziare i deficit di bilancio dei governi dei Paesi dell’eurozona. Il ‘quantitative easing’ in salsa europea sarà quindi molto probabilmente meno incisivo di quanto i mercati si attendano e si limiterà ad acquisti di titoli pubblici nel mercato secondario, dove si scambiano i titoli emessi in precedenza da governi e società. Ora mal si comprende, in un momento in cui chi detiene le redini del governo dell’euro punta decisamente alla sua svalutazione, la decisione della Banca nazionale svizzera. Il franco svizzero è tornato di colpo a essere quel porto sicuro per chi vuole scappare dall’incertezza. Una comunicazione improvvida e che ha annientato in pochi minuti la credibilità della Banca nazionale costruita in 108 anni di storia. Fino, in pratica, all’altro ieri, la politica del tasso di cambio minimo tra franco ed euro era considerata da Thomas Jordan un baluardo a lungo termine della politica monetaria. Il pericolo della deflazione, ingigantito anche dal calo del prezzo delle materie prime, sembrava essere il nemico numero uno per la stabilità economica e finanziaria della Svizzera. A questo si aggiungeva il rischio di delocalizzazione aziendale con il relativo spostamento di migliaia di posti di lavoro. Da ieri tali fattori, per i vertici della Bns, non sono più così pericolosi. Secondo l’autorità monetaria elvetica, aumentare improvvisamente i costi di produzione in Svizzera è un contraccolpo che il sistema manifatturiero elvetico ora può, non si capisce come, magicamente assorbire. La giornata sui mercati è stata a dir poco convulsa, con la Borsa svizzera che è arrivata a perdere fino al 14% (record storico). Alla fine delle contrattazioni l’indice principale Smi ha lasciato sul terreno l’8,67%, unico listino europeo a chiudere in territorio negativo. Reazione irrazionale l’ha definita Jordan. Vedremo se saranno giudicate tali anche quelle degli imprenditori e degli operatori turistici in Svizzera.

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