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'Je suis Samuel'

La difesa dello Stato laico non consente oggi compromessi: cinque anni dopo, “Je suis Charlie” rimane un proclama di libertà

In migliaia in place de la République (Keystone)

I volti atterriti, un fiume di sagome che sembrano imbattersi nel muro invisibile dello sconcerto, il silenzio partecipe che avvolge Conflans-Sainte-Honorine, allievi e genitori sciamano lenti per deporre candele e mazzi di fiori all’entrata della scuola. A terra tra la montagna di rose e bigliettini, vergata con un pennarello nero su un cartone, la scritta “je suis Samuel”. Nelle grandi città francesi un’altra domenica di cordoglio, protesta e solidarietà. Il 16 ottobre 2020, come il 7 gennaio o il 13 novembre di 5 anni fa.

Samuel Paty, 47 anni, docente nella periferia parigina, decapitato da un diciottenne islamista ceceno. La sua lezione sulla libertà di espressione ha risvegliato il mostro del radicalismo religioso: un genitore indignato posta sui social nome e numero di telefono del “miscredente”: è l’annuncio della condanna a morte, l’invito a passare all’atto. Che raccoglie il giovane terrorista. Come per i giornalisti James Foley o Richard Perle, o per il regista olandese Theo Van Gogh e tante altre vittime del fondamentalismo, la decapitazione mira a martoriare il corpo dei “kafir” i miscredenti e richiama la tradizione ancestrale: secondo il suo primo biografo, Maometto approvò la decollazione di centinaia di ebrei alla periferia di Medina, esasperando in questo la tradizione dell’Antico Testamento (Davide e Golia, Giuditta e Oloferne). Il poeta siriano Adonis in una sua nota pubblicazione (Violenza e Islam) ricorda che la storia della sua religione è dagli inizi estremamente violenta (tre dei primi quattro califfi furono assassinati). E che Corano e Sunna (che raccoglie gli hadith, i detti del profeta) sono imbottiti di appelli alla punizione per chi non aderisce alla fede o abbandona l’Islam: torture e decapitazioni attendono gli apostati.

La Bibbia in diversi suoi libri è certamente altrettanto spietata. Ma mentre il testo di riferimento di ebrei e cristiani è interpretabile e da secoli contestualizzato, quello dei musulmani è off limits per chi volesse farne l’esegesi: la parola di Dio in effetti è immutabile. Chi si avventura in contestualizzazioni, come gli autori del recente monumentale (e straordinario) “Le Coran des historiens” mette la propria vita a rischio. Uno dei maggiori studiosi riformisti dell’Islam, Abdelwahab Meddeb, aveva denunciato la “xenofobia epidermica” dei predicatori per i quali l’“altro”, il non-musulmano, è il nemico da abbattere. L’emergere negli ultimi decenni della corrente più intransigente del sunnismo ormai dominante (la cosiddetta scuola hanbalita, nata nel IX secolo e rilanciata dal wahabismo saudita) alimentata da propaganda e petrodollari di Riad ha emarginato l’islam riformista che ha molta difficoltà a farsi sentire. E che frustrazione, radicalizzazione e ignoranza rendono poco attrattivo per una frangia della gioventù frustrata, che il più delle volte non frequenta neppure le moschee. Il terrorismo fai te non è meno insidioso di quello organizzato: difficile controllarlo, agisce facilmente con strumenti a disposizione di tutti, coltelli e mannaie.

La Francia ha la laicità nel suo Dna: il secolarismo è l’unico strumento che sulla base della neutralità dello Stato possa garantire la convivenza di comunità e ideologie diverse. La difesa dello Stato laico non consente oggi compromessi: cinque anni dopo, “Je suis Charlie” – anche per chi non ama il giornale satirico – rimane un proclama di libertà.

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