L'analisi

Donald Trump re taumaturgo più forte del virus

L'esibizione della propria persona conferma la cifra di questa presidenza: messinscena

7 ottobre 2020
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L'ostensione della propria persona prodotta da Donald Trump al suo ritorno alla Casa Bianca pare riassumere la natura profonda della sua presidenza e dell'uomo: esibizione. Che è poi il tratto della nostra epoca e della nostra parte di mondo, nei quali l'esibizione non necessita più di una “cosa” da mostrare, ma basta a se stessa.

In questo senso l'Ecce Macho messo in scena da Trump richiama sì le smargiassate di Mussolini alla “battaglia del grano”, o i monumenti equestri viventi impersonati da Putin o Kim Jong-un, ma con un sovrappiù di cialtroneria criminale che designa al meglio il personaggio e il sistema che fa perno su di lui.

Cialtroneria perché c'è qualcuno che non la racconta giusta: lui o i medici. O la malattia di un ultrasettantenne sovrappeso, al quale è stato pur brevemente somministrato ossigeno era una finzione; o lo è la sua guarigione, seguita da messaggio rassicurante ai devoti.

Criminale perché pretendere che le cure ricevute siano dello standard a cui hanno avuto accesso i milioni di americani contagiati dal coronavirus è un insulto agli oltre duecentomila che ne sono morti.

Dunque se è vero che l'esibizione del corpo è un numero che fa parte dell'armamentario propagandistico di tutti gli autocrati (o aspiranti tali: il sorridente Berlusconi sedicente sciupafemmine era della stessa risma) nel caso di Trump la dimensione grottesca dello spettacolo può sfuggire solo ai suoi adoratori, o agli adulatori che lo molleranno quando le sue fortune volgeranno in rovesci.

Ed è chiaro che ad essi si è rivolto mostrandosi. Perché l'impellenza della campagna elettorale, visto il ritardo crescente accusato nei confronti dell'avversario democratico Joe Biden, è senz’altro in testa ai suoi pensieri, e non poteva esserci spot migliore di un presidente sfiorato da un rischio mortale e capace tuttavia di sventarlo e risorgere, più sano “di vent'anni fa”, parole sue. Non è un dettaglio, né una scorciatoia argomentativa. Solo un'adesione fideistica (e qualcuno ricorderà i “re taumaturghi” del capolavoro di Marc Bloch) può spiegare il successo di Trump presso un certo elettorato, ed è ad esso che si può spacciare il messaggio miracolistico del presidente rinato. Si pensi alla pletora di chiese evangeliche nel cui bacino ha pescato a piene mani, introdottovi dal bigotto vicepresidente Mike Pence. Mentre per un altro verso, è facile immaginare quale aggiunta di convinzione avranno portato le parole di Trump – non abbiate paura del Covid - ai negazionisti, ai no-mask, a quelli che “tanto a morire sono i negri o i morti di fame”.

Se questo è il calcolo, si vedrà tra non molto quale risultato avrà prodotto. Ma già ora lo si può intendere come la dimostrazione che non solo Trump non può cambiare (ed è la più scontata), ma soprattutto che un partito repubblicano ormai divenuto di estrema destra non ha altre risorse all’infuori di lui per tenersi stretti i consensi di un’America bianca e arrabbiata e che reagisce con l’odio al suo inevitabile declino.

E tuttavia guardiamo ancora quella figura di preteso vigore e determinazione, che si offre agli obiettivi in atteggiamento di sfida. Lui, la sola realtà in un universo ostile di fake news. E non si sa se quello lassù richiama un nuovo John Wayne di cartapesta, surrogato di quello di celluloide; o se ricorda uno dei gerontocrati del politburo di epoca sovietica, esposti per la parata del 7 novembre, sorretti da puntelli e cordicelle. Cosicché il disgusto lascia spazio alla pena.

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