laR+ L'analisi

Stati Uniti, per Biden non è fatta

Donald Trump conserva importanti assi nella manica. La sfida delle presidenziali è quantomai aperta.

Joe Biden e Kamala Harris
(Keystone)
24 agosto 2020
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Mentre Joe Biden veniva designato, la convention “in remoto” dei democratici celebrava il suo inusuale, virtuale rito telematico, con i sondaggi ancora favorevoli al concorrente di Trump. Pronostici che gli sono favorevoli da oltre quattro mesi. E che il candidato democratico ha tentato di consolidare: sia cercando una problematica sintesi fra le due principali anime del partito, la moderata e la radicale, unite almeno provvisoriamente dal “comune nemico”; sia promettendo una rinascita della nazione “come fece Roosevelt con il New Deal”. Quindi investimenti pubblici e Stato sociale. Nella grande crisi americana, una ricetta “inclusiva” per battere un rivale che si è confermato il presidente più “divisivo” della storia americana, dalla contrapposizione alle minoranze alla promozione del populismo nativista bianco.

La situazione generale non è sfavorevole a Biden: di fronte ha un Trump che ha gestito nel peggiore dei modi l’aggressione del Covid-19, inizialmente derubricandolo a semplice influenza stagionale, resistendo con arroganza ai suggerimenti degli esperti, suggeritore di terapie folli (“iniettatevi disinfettante”), precipitoso nella riapertura delle attività, rabbioso contro i governatori democratici accusati di resistergli, responsabile del peggioramento del numero dei contagi, delle vittime e della disoccupazione. E c’è tutto il resto degli ultimi tre anni. In particolare portando la società statunitense a un livello di scontro interno, di scollamento comunitario, di odio senza precedenti. E tuttavia per l’ex vice-presidente di Obama (il “vero” tutor del nuovo pretendente alla Casa Bianca), i giochi sono tutt’altro che fatti. Non solo perché i sondaggi registrano un calo del suo vantaggio. Ma soprattutto perché il tycoon ha importanti assi nella manica. La lista non è breve: oltre un miliardo di dollari per la campagna elettorale (meno di 700 per Biden), pochi anche se illustri dissidenti repubblicani, più iscritti alle liste elettorali del suo partito che non a quello democratico, sostanziale incertezza sul voto dei cosiddetti Stati-chiave della “Rust-Belt” (la regione industriale del nord-est) che gli garantirono la vittoria 4 anni fa, l’attrattività dello slogan “legge e ordine” su una parte degli elettori moderati spaventati (anche ad arte) da rivolte e disordini razziali, la solida condivisione della sua avversità nei confronti degli immigrati, lo scontro con la Cina che nel paese non è per nulla impopolare, la convinzione che “Sleepy Joe” (Biden “l’addormentato”) non riuscirà a mobilitare i giovani.

Può infine vantare la massiccia spesa erogata per far fronte alla crisi sanitaria, finora il 13,2 del Pil, di più hanno fatto solo Canada e Giappone, mentre nessun intervento europeo è stato di pari portata. Una cascata di aiuti che ancora non bastano (infatti Trump sta cercando di forzare la mano al Congresso), ma che per dimensione nonché per la loro natura ‘sociale’ i democratici possono difficilmente contestare.

Dati di fatto. Che suggeriscono prudenza. È auspicabile che i sondaggisti abbiano appreso la lezione del 2016 (quando diedero fino a 5 punti di vantaggio a Hillary Clinton), che stavolta non abbiano sottovalutato l’elettorato rurale e i ‘red neck’ della fascia lavoratrice medio-bassa, ed è anche vero che allora non pochi elettori di Trump ‘nascosero’ la loro preferenza mentre oggi sono meno portati a farlo. Ma tutto indica che la sfida è ancora aperta.

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