L'analisi

Il giorno della rabbia nella tragedia libanese

Molti slogan ‘laici’ nelle proteste di sabato. Ma un Libano unito dalla e nella laicità sembra ancora un sogno irrealizzabile

(Keystone)
10 agosto 2020
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Se quel micidiale fungo di fumo che si stagliava nel cielo di Beirut, sopra il suo grande porto sbriciolato dall’esplosione, sull’ultima delle carneficine che da anni feriscono la città e le sue periferie, se tutto questo è il simbolo, la certificazione di una inarrestabile tragedia nazionale, occorre anche aggiungere che si tratta dell’ultimo atto di un dramma che parte da lontano, che si è costruito capitolo dopo capitolo, vendetta dopo vendetta, guerra dopo guerra.

Da tempo ormai la celebrata Beirut “Parigi” a sud del Mediterraneo, o il Libano “Svizzera del Medio Oriente”, è un ricordo lontano, sbiadito, stracciato. Se mai quelle definizioni hanno avuto gran senso. Certo, lo furono soprattutto per prìncipi e affaristi arabi in cerca di passatempi proibiti in patria, di banche generosamente ospitali con affaristi di ogni genere, di giochi e giochetti finanziari per ripulire capitali in libera e illegale uscita. Non lo furono certo per la stragrande maggioranza degli abitanti del Paese dei Cedri. Vittime delle innumerevoli faglie e dei sanguinosi conflitti che via via hanno segnato la fine di un “modello” di convivenza politico-confessionale su cui si è basata una fragilissima coabitazione, ma che al tempo stesso è stato il peccato originale dell’architettura istituzionale libanese. Musulmani sunniti, musulmani sciiti, cristiani non proprio fraternamente uniti, e i drusi. Un mosaico che non poteva reggere e non ha retto, situato com’è, com’era, al centro delle crescenti tensioni inter-comunitarie e religiose in tutta la regione.

Anche perché, in più, il Libano sconta sul suo territorio già lacerato troppe guerre per procura: a lungo il pugno duro della Siria occupante e revanscista; poi il dramma di milioni di palestinesi emarginati nei campi profughi e il tentativo dell’Olp di creare uno Stato nello Stato; quindi le invasioni militari israeliane e la loro delinquenziale alleanza con la peggiore feccia delle milizie cristiano-falangiste, incoraggiate o “protette” dalle forze di Sharon quando si trattò dell’eccidio di Sabra e Shatila (come stabilì una commissione d’inchiesta israeliana); ancora, e soprattutto, quindici anni di una feroce guerra civile sempre alimentata da famelici appetiti stranieri; infine l’inevitabile avanzata demografico-politica degli sciiti legati ad Hezbollah, alleato militare della Siria, quindi manovrabile dall’Iran, ormai unica e temuta mano armata contro Israele. Fino al baratro di una profondissima crisi economica, aggravata dagli effetti del coronavirus: prezzi alle stelle, svalutazione vertiginosa, disoccupazione a quasi il 50 per cento.

Regno, questo Libano, di una corruzione diffusa e tenace. Di tutta l’élite, di tutti i capi-bastone, di tutti i grandi o piccoli raiss decisi a non cedere i loro privilegi. Due giorni fa Beirut bruciava, è stato il “sabato della rabbia”, decine di migliaia di persone hanno rianimato le proteste iniziate già lo scorso ottobre, diversi i ministeri occupati o dati alle fiamme. Sembra che molti slogan fossero “laici”. Dunque, contro la sparizione del potere su base confessionale, religiosa. Questa sarebbe la vera “rivoluzione”, come la definiscono i manifestanti. Un Libano unito dalla e nella laicità. Non diviso da chiese e moschee, croci e mezzelune. Ma sembra ancora un sogno irrealizzabile.

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