L'analisi

Ma un’Europa c’è ancora

'Mutualizzazione' del debito c’è stata nell’accordo finale raggiunto dopo quattro giorni di dura maratona: ma si tratta di una condivisione solo parziale

21 luglio 2020
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C’è chi, volando alto, troppo alto, aveva ricordato che gli Stati Uniti nacquero oltre duecento anni fa grazie alla “mutualizzazione” del debito, con lo Stato federale che si fece carico dei buchi di bilancio degli Stati dell’Unione più indeboliti dalla guerra di indipendenza dalla Gran Bretagna.

Una storica lezione per l’Ue, ci si è chiesti? No, la notte scorsa non sono nati gli Stati Uniti d’Europa. Né potevano nascere. “Mutualizzazione” del debito c’è stata nell’accordo finale raggiunto dopo quattro giorni di dura maratona negoziale: ma si tratta di una condivisione solo parziale del debito che l’Unione dovrà anche contrarre sui mercati finanziari per realizzare il Recovery Fund con cui rilanciare un’economia continentale devastata dai veleni del coronavirus.

Si tratta comunque di una “prima” storica. E al Recovery vanno aggiunti gli aiuti miliardari già varati in precedenza dal Mes (il Meccanismo europeo di stabilità), dal Sure (sostegno ai disoccupati dell’area Ue), e dalla Bei (la Banca europea degli investimenti). Va quindi valutato e giudicato complessivamente questo quadro di interventi impensabile ancora tre mesi fa, in un’Europa comunitaria che sembrava inesorabilmente scavata unicamente dalle logiche degli egoismi nazionali, e lacerata sui i dossier più importanti (dalla questione dei migranti, alla consistenza del budget Ue, alla difesa comune).

Anche in un momento così decisivo per le sorti dell’Ue, soltanto un faticosissimo compromesso ha prodotto la svolta che segna una direzione comunque tutta da realizzare. Del resto, nessuno dei principali protagonisti del confronto poteva rientrare in patria a mani vuote. Anche e soprattutto per motivi politici interni, fra scadenze elettorali e spinte populiste. Non potevano permetterselo quelli che si sono auto-definiti “Paesi frugali”, con in testa l’Olanda, che hanno ottenuto un riequilibrio fra versamenti a fondo perduto e prestiti da rimborsare. Non i “mediterranei”, soprattutto l’Italia, assolutamente bisognosi di una forte iniezione di sussidi: evitano pericolosi diritti di veto di singoli Stati, pur dovendo accettare il “superfreno di emergenza” (con cui un Paese può tentare di bloccare i fondi a membri inadempienti). Né potevano fallire Angela Merkel e Emmanuel Macron – la “locomotiva franco-tedesca” ritrovata – che hanno impresso la marcia a questa nuova tappa dell’integrazione europea, e smussato almeno in parte il ritorno in forze dei rigoristi nordici.

Tra le fila di questi primattori si sono poi mossi quelli di “Visegrad”, con Ungheria e Polonia, momentanei e imbarazzanti alleati, che in cambio dell’appoggio ai “latini” sperano di ottenere comprensione sulle restrizioni ai diritti fondamentali (controllo dei media e della magistratura) che impongono vergognosamente ai loro Paesi.

No, ieri non sono nati gli Stati Uniti d’Europa. Ma realisticamente, visto lo stato dell’Unione, la sua inconsistenza strategica, la permanente forza dell’assedio populista, ci si poteva forse aspettare di più? Forse, alla fine, prevarrà la consapevolezza che bisogna sottrarre il “vaso di coccio” europeo dalla morsa di quelli “di ferro” (o presunti tali), cioè Usa, Cina, Russia. L’intesa di Bruxelles, a suo modo storica, riapre una speranza. E c’è da augurarsi che vengano stoppati i guastatori di diversa caratura e consapevolezza: dai nuovi nazionalisti agli immancabili e svogliati riformisti.

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