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Il virus che uccide l’Ue

Le ragioni di politica domestica di ciascun governo hanno prevalso su quelle di appartenenza e condivisione di un progetto comune

20 luglio 2020
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Ieri sera non sapevamo ancora quale fosse l’esito del vertice europeo di Bruxelles, ma che il suo tempo poteva essere risparmiato lo si poteva già dire. Se cioè si trattava di dare conferma della corsa allo svuotamento di significato del termine “unione” riferito all’Europa, allora non era davvero il caso di perdere tanto sonno. Nell’intera trattativa, infatti, le ragioni di politica domestica di ciascun governo hanno prevalso su quelle di appartenenza e condivisione di un progetto comune. E benché sia scontato che un esecutivo debba rispondere al legislativo, e attraverso questo ai cittadini, la forma assunta da questa norma di civiltà politica sembra ormai del tutto travisata.

Ridurre quindi la posizione dei cosiddetti “Stati frugali” alla tutela dei propri contribuenti, indisponibili ad assumere costi generati dagli Stati-cicala, Italia in testa, è una operazione ideologica, innervata di pregiudizi e sostanziata da una buona dose di falsità. Bisognerebbe semmai considerare insieme la partecipazione finanziaria e i benefici goduti da ciascun membro Ue (e i “frugali” si assicurano, proporzionalmente, abbondante parte dei secondi, per non dire dei “Visegrad”) per valutare l’opportunità o no di sostenere economicamente i Paesi più colpiti dal coronavirus, sottraendo così il confronto a una disputa meschina sulla “grana”. Ciò su cui si sono invece arroccati l’olandese Rutte e i suoi fratelli, mascherando di virtù la pochezza e la paura. 

Una volta scoperto che davvero è interesse comune sostenere i membri dell’Unione messi peggio, ne deriva che il rifiuto di farlo ha un’altra origine. La sua natura svela il ritardo e il voltafaccia di esecutivi e opinioni pubbliche rispetto a professate lealtà comunitarie. Da questo punto di vista non c’è capitale che possa chiamarsi fuori, nemmeno quelle che ora si trovano nella più urgente necessità di solidarietà.

Si tratta di uno snodo cruciale, che di questi tempi viene volentieri equivocato come tutela delle scelte democratiche di ciascun Paese. Ed è il tema più caro alle destre nazionaliste, riuscite a forzare in termini antagonistici una dialettica positiva e sacrosanta tra pari. Quanto i governi “moderati” siano a loro volta ostaggio o complici di questo indirizzo non è ancora possibile distinguere con chiarezza, ma di sicuro l’esito non cambia. Il che li chiama a un’assunzione di responsabilità che non consente scorciatoie propagandistiche. In questo senso, se la rigidità ottusa di Rutte è spiegabile anche dalla pressione che in patria subisce dalla forza in crescita della destra populista, è pur comprensibile che nel confronto politico la posizione dell’italiano Conte abbia ancora scontato la diffidenza suscitata dall’antieuropeismo che fino all’altroieri è stato un elemento identitario fortissimo per le forze che lo hanno messo a capo del governo (una delle quali, incidentalmente, si trova ora all’opposizione).

Per questo non si può parlare di un “naturale” processo disgregativo dell’Unione, di cui la tormentata trattativa sugli aiuti sarebbe solo un’ennesima conferma. Di “naturale” c’è ben poco, come sempre quando si tratta di politica. Sono semmai le scelte a fare apparire “naturali” gli indirizzi presi dagli eventi. E, di nuovo, il risultato rischia di essere lo stesso.

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