laR+ L'analisi

Segnali di fumo da Pyongyang

Calcolo e azzardo nella rappresaglia di Kim Jong-un contro Seul

17 giugno 2020
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La colonna di fumo che si è alzata dalle rovine dell’ufficio di collegamento tra le due Coree non è ancora l’innesco di un incendio; ma in cenere, insieme all’edificio inaugurato (in territorio nordcoreano) appena due anni fa, sono finite le residue illusioni sulle “prospettive di pace” tra Pyongyang e Seul favorite dalla “visione” di Donald Trump. Ammesso che qualcuno si fosse illuso, naturalmente.

A determinare la rabbiosa reazione di Kim Jong-un sarebbe stato il lancio verso il territorio nordcoreano di palloncini con allegati volantini di propaganda (ma anche chiavette usb, micro-radio, alimenti) da parte di espatriati al Sud. Ma anche tenuto conto dell’infima soglia di tolleranza del regime di Pyongyang nei confronti di tutto ciò che può attentare alla propria immagine, non si può liquidare l’episodio come una manifestazione di iperreattività da bullo del “giovane leader”, deciso oltretutto a tacitare definitivamente le voci che lo volevano male in arnese e non più nei pieni poteri.

In effetti, da tempo gli analisti sottolineavano la crescente insofferenza di Kim per la stasi nelle dinamiche che solo due anni fa lo avevano elevato a interlocutore diretto della maggiore potenza mondiale. Ricondotto, più o meno, nella condizione di paria internazionale, senza una prospettiva di allentamento delle sanzioni a cui il proprio Paese è sottoposto, Kim – non nuovo a questi exploit – avrebbe cercato e colto l’occasione per rimettersi al centro del discorso. Per acquisire posizioni di forza sul piano negoziale, e per confermare il registro della propaganda interna (obiettivo, quest’ultimo, tanto più urgente se sono vere le notizie di una drammatica e prolungata penuria di alimenti anche nella capitale). 

Non la fiammata di un giorno, dunque. Prima del botto di ieri c’era stata l’interruzione di tutte le linee di comunicazione con il Sud; e ad essa (ha minacciato lo stato maggiore nordcoreano) potrebbe seguire l’invio di truppe nell’area smilitarizzata in seguito all’accordo del 2018. E naturalmente bisogna attendersi la “risposta” a cui la Corea del Sud è in qualche modo tenuta. In una prima dichiarazione, il governo del presidente Moon ha lamentato la “distruzione delle speranze di pace nella penisola”, avvertendo che il suo Paese reagirà “fermamente” se Pyongyang seguirà a far peggiorare la situazione.

Come in occasione dei test missilistici nordcoreani, c’è molta ritualità in tutto ciò, ma ben pochi azzardano scenari certi sulla piega degli avvenimenti che seguiranno. Nessuno, nemmeno Kim ne ha certezza. La via bilaterale lungo la quale sembrava averlo sedotto Trump, si è rivelata fallimentare. Il resto lo fanno la mancanza di visione e il cinismo dei Paesi vicini e più direttamente interessati a una composizione del conflitto (a partire dalla Corea del Sud, combattuta tra autentica volontà di riconciliazione, tentazione egemonica e indisponibilità a farsi carico dei parenti poveri). Il resto, cioè il peggio.

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