L'analisi

Dalla Crimea a Hong Kong

La Cina non è la Russia, affrontarla sarà più difficile

30 maggio 2020
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Hong Kong non è la Crimea, e la Cina non è la Russia. Identici rimangono invece gli spettatori internazionali (europei e nordamericani) di una nuova prova di forza che viola i diritti dei cittadini di un territorio almeno in parte sovrano, e che ne annuncia altre, ove gli eventuali destinatari (Taiwan) non capissero l’antifona.

Non sembrano esservi dubbi sul fatto che i tempi scelti da Pechino per introdurre la nuova legge sulla “sicurezza” nell’ex colonia britannica intendono sfruttare la condizione di debolezza in cui si trovano Europa e Stati Uniti a causa della pandemia di Covid-19. Ma questo ha più a che fare con la tattica che con la strategia, e distingue la rozza annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin dalla “normalizzazione” di Hong Kong da parte di Xi Jinping. La prima è stata la mossa propagandistica di un regime a cui solo la forza muscolare non fa difetto; la seconda un passaggio nel processo di affermazione della Cina quale Paese egemone su scala mondiale. Non solo. Della Crimea gli occidentali hanno una gran fretta di dimenticare il destino; mentre le loro economie, ben più di quella cinese, non possono prescindere da una piattaforma di scambio fondamentale come è Hong Kong.

E soprattutto, se con Mosca qualche forma di appeasement è ancora contemplata dalle diplomazie europee, con Pechino, stante la sproporzione delle forze, è necessario venire a patti. O subirli non disponendo della capacità di imporli.

È bene averlo presente nel momento in cui, di qua e di là dell’Atlantico, le reazioni ufficiali al colpo di mano cinese possono evocare una qualche energica azione di rappresaglia diplomatica o economica Nel senso che è bene non farsi illusioni. Se la Casa Bianca, in piena propaganda elettorale, ha tutto l’interesse a imbastire una campagna di sdegno e di affermazione dei “valori democratici”, per l’Europa il discorso è diverso, trovandosi ancora una volta schiacciata tra la determinazione indifferente del gigante cinese e la foga sgangherata e falsa di Donald Trump alla quale non vuole essere assimilata. 

In altre parole, la condanna, anche in forma di eventuali sanzioni, dell’atto d’imperio cinese rischia di essere un sussulto episodico, destinato a rimanere poca cosa; poco più di un inciampo sul percorso egemonico della Cina. Se è vero cioè che il momento scelto per archiviare brutalmente l’autonomia di Hong Kong ha a che fare con le difficoltà in cui si trovano Europa e Stati Uniti, è ancora più vero che ciò non è liquidabile come un temporaneo accidente, ma è semmai l’esito di una subordinazione alla Cina di un occidente che ne aveva fatto la propria manifattura e ora ne è dipendente ben oltre la mera dimensione industriale. Ne è, in molti campi, proprietà.

Poi, certo, ha ragione chi invita a non considerare infallibile Xi e inscalfibile il sistema di potere che ha stretto attorno a sé. Mentre il patto tacito stabilito tra regime e cittadini per cui il benessere vale la mancanza di diritti ha già mostrato il proprio vizio d’origine e più di una falla. Contare tuttavia su un ridimensionamento della Cina generato dalle inevitabili crisi di crescita e da eventuali richieste di democrazia interne, è da un lato illusorio, dall’altro espressione di codardia. Chi ritiene la libertà di Hong Kong un valore non negoziabile affronti Pechino e paghi il prezzo che ne deriverà.

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