laR+ L'analisi

La miccia accesa di Donald Trump

Un presidente che aizza l’estrema destra a protestare contro il lockdown rivela fino a dove è pronto a spingere il proprio cinismo per difendere un secondo mandato

23 aprile 2020
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Quando esploderà la bomba di cui Donald Trump ha acceso la miccia? Il tentativo del presidente statunitense di recuperare i consensi (credibilità no di sicuro) smarriti a causa della gestione inetta della crisi dell’epidemia di coronavirus sta facendo correre agli Stati Uniti un rischio forse maggiore di quello a cui la sua stessa politica, da tre anni a questa parte, ha esposto il mondo.

Un presidente che aizza l’estrema destra a protestare contro il cosiddetto lockdown che in mezzo mondo si è rivelato necessario a contenere l’estensione del contagio, non solo si conferma responsabile di un disastro sanitario e sociale che non ha paragoni, ma rivela fino a dove è pronto a spingere il proprio cinismo per difendere un secondo mandato alla Casa Bianca. I tweet con cui Trump esortava a “liberare” questo o quello Stato dell’Unione altro non sono che un invito alla sollevazione, rivolto non certo alle persone messe in difficoltà economiche dalle misure di contenimento del virus, ma a quei militanti che si sono riversati nelle piazze per l’operazione gridlock (blocco del traffico) esibendo i simboli della propaganda presidenziale, bandiere sudiste e qua e là qualche svastica (e armi a tracolla, in Michigan). Nei giorni, e sarà una coincidenza, del venticinquesimo anniversario della strage di Oklahoma City, maturata negli ambienti esaltati della stessa destra radicale.

Hanno avuto un bel dire i governatori degli Stati interessati (alcuni dei quali pur repubblicani) che le rivendicazioni dei manifestanti sostenute da Trump vanno contro le disposizioni emesse dal governo federale, dunque dalla Casa Bianca stessa. Niente da fare: gli argomenti della razionalità poco possono contro la metodica follia che governa l’agire di Trump.

Questo presidente ha troppe cose da far dimenticare, e ritiene che solo la massima confusione possa essergli alleata in questo tentativo disperato. Dovendo fare i conti con un numero di contagi che ha superato ormai le 750mila unità e davanti a più di quarantamila morti, la tattica di accusare prima l’Oms e ora la Cina (pur con tutte le ragioni che vi possono essere) si rivela una smaccata manovra diversiva da parte dell’uomo che negò esistenza e gravità del contagio, irridendo gli epidemiologi che l’avevano messo sull’avviso, l’intelligence che gli aveva fornito scenari inconfondibili, e i giornalisti che gliene chiedevano conto.

Il presidente che ha illuso una parte di elettori di “avere rifatto grande” l’America e che aveva impostato la nuova campagna elettorale sul “mantenerla grande” deve ora fare i conti con un quadro che lo inchioda alla falsità del suo discorso. Solo tra il 9 e il 16 aprile, i cittadini che hanno fatto richiesta del sussidio di disoccupazione sono stati ben più di cinque milioni, che porta a ventidue milioni il totale dall’inizio dell’emergenza. Chiuda le frontiere e invochi pure la sfortuna, ma non è questa che Trump potrà addurre come giustificazione: la sua presidenza si è da subito fondata su un’assertività impermeabile e ostile a ogni verifica, e non può mutare natura.

Messosi da sé con le spalle al muro, Trump tenta l’azzardo più sciagurato: esibire il fiammifero acceso in un contesto già inzuppato di materiale infiammabile. La controstoria degli Stati Uniti ha già trovato il suo campione.

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