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Dal virus al ‘cigno nero’

La pandemia ha reso coscienti i Paesi occidentali della fragilità della divisione internazionale del lavoro. E li costringe a ripensare il ruolo consegnato alla Cina.

(Keystone)
20 aprile 2020
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Potrà essere il sovranismo (politico ed economico) la risposta finale ad una emergenza (sanitaria ed economica) che per la sua diffusione è pandemica, quindi mondializzata, in definitiva anti-sovranista? È quanto sperano i vari schieramenti nazional-populisti, convinti che non il nostro rapporto malato con la natura e i relativi sovvertimenti biologici, bensì il tumultuoso fenomeno d’apertura delle frontiere, con i suoi presunti esiti, sia la principale causa dell’attuale tragedia che colpisce salute e produttività nei vari continenti.

Così, ritengono i sovranisti, è possibile che si sia finalmente manifestato il loro 'cigno nero': cioè quella catena di eventi imprevedibili che determinano un fatto impensabile, che in questo caso darebbe ragione alla loro ricetta. Quindi, il 'cigno nero' che decreta la fine dell’'ideologia mondialista'.

In realtà, nessuna grande peste ha mai sovvertito un processo di scambi commerciali internazionali e frontiere aperte che il grande storico Fernand Braudel riteneva connaturato agli sviluppi dell’economia capitalista. Un processo non raramente imposto anche ricorrendo alla guerra in armi. Sostituita oggi (al di là di quelle combattute per procura) dai primi passi della guerra commerciale, che però, per i suoi effetti (il contrappeso sulle tasche dei consumatori) può rivelarsi a doppio taglio. È evidente che questo modello capitalista, con il suo corollario di una 'dittatura finanziaria' ingorda e co-responsabile delle crescenti disuguaglianze sociali, viene messo a nudo dai devastanti effetti del coronavirus.

Si prende per esempio atto che una mondializzazione non governata, orientata quasi esclusivamente al massimo profitto, con le sue delocalizzazioni, ha consegnato alla Cina un ruolo spropositato nel processo economico globale, con effetti negativi in particolare sul vecchio continente. Il 'Regno di Mezzo', diventato 'fabbrica del mondo', produce circa il 30 per cento dei beni manufatturieri a livello planetario, un’enormità: ruolo che non le impedisce affatto, anzi, di procedere spedita anche sulla via della rivoluzione tecnologica e digitale, e che comunque, ricorda J. M. Bezat, si è in gran parte affermato “violando le regole seguite dai concorrenti occidentali (saccheggio tecnologico, chiusura dei mercati locali, massicci aiuti di Stato, sostegni pubblici alle esportazioni)”.

Già con Obama gli Stati Uniti avevano evidenziato la torsione delle regole da parte di Pechino; l’errore di Trump, ostile al multilateralismo, è stato quello di muoversi senza cercare l’alleanza dei partner, che avrebbe reso più efficaci le pressioni sulla Cina, la quale ha invece avviato la sua politica espansiva aprendo anche la 'Via della seta'.

La pandemia ha dunque brutalmente reso coscienti le nazioni occidentali della fragilità della divisione internazionale del lavoro. E anche del peso, delle costrizioni e dei pericoli insiti nell’assegnazione alla Cina di prodotti strategicamente indispensabili alla propria sicurezza (si pensi anche solo alla sanità, con il gigante asiatico gran produttore dei 'principi attivi' dei farmaci destinati al nostro mercato). Finirà tutto questo? Almeno in parte dovrà cambiare. Ma non sarà un processo facile, a costi non indifferenti, che potrebbero finire per pesare sulle nostre spalle di cittadini e salariati. Anche la de-mondializzazione ha un prezzo. Anch’essa va governata. E non è affatto detto che il 'cigno nero' dei sovranisti spicchi il volo.

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