L'analisi

Confucio e il coronavirus

Problema innanzitutto sanitario, il coronavirus: per le vite che ha già spezzato e per le vittime che ancora provocherà

11 febbraio 2020
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Problema innanzitutto sanitario, il coronavirus: per le vite che ha già spezzato e per le vittime che ancora provocherà; per il cordone sanitario mondializzato con cui si prova a contenere la contaminazione al di fuori della Cina; e anche perché il ‘Dragone’ è il maggiore produttore internazionale di principi attivi alla base di farmaci importanti, e un blocco prolungato della produzione potrebbe diventare un guaio.

Anche problema economico, quindi: se si ferma la “fabbrica del mondo”, come viene definito il gigante asiatico, diventato una sorta di catena di montaggio del pianeta, con una componentistica che ha fatto la felicità dei colossi industriali stranieri in grado di servirsene, oltre al calo di export, turismo e investimenti in misura tale da provocare una ‘gelata’ della già asfittica economia occidentale.

Infine, un problema sociale-comunicativo: il terrore del contagio, con comportamenti verso viaggiatori e comunità cinesi che vanno fino a episodi assurdi di razzismo, e che la perniciosa spettacolarizzazione da parte dei media ha alimentato.

Si fa invece fatica a capire se e quanto il virus possa essere o divenire un problema anche politico interno (che in realtà non sarebbe riconducibile a un problema solo nazionale, visto le conseguenze che avrebbe a livello globale) sulla tenuta, sulla solidità, sul tenore, sui possibili cambiamenti del regime “comunista” cinese.
Si sa qual è la lettura affermata all’estero: da una parte ammirazione per l’immenso e disciplinato sforzo messo in campo dai leader di Pechino per organizzare la resistenza e la lotta al virus, e dall’altra recriminazione per la tardiva reazione delle autorità, conseguentemente per i sospetti che lo scambio di informazioni possa non essere del tutto trasparente.

E nel ventre della società cinese? Nelle teste e negli impulsi di quel miliardo e quattrocento milioni di abitanti che disciplinatamente operano nella “fabbrica del mondo”?

Insomma, il virus può aver infettato almeno in parte il sistema e l’edificio del partito unico, già alle prese con le contestazioni democratiche di Hong Kong e Taiwan (che mettono in crisi il dogma del “paese unico con due sistemi”) e spinte indipendentiste (dal Tibet ai perseguitati Uiguri musulmani)?

Per il momento sembra impensabile la trasmissione di un’infezione politico-riformista nei confronti di un regime che detiene una impareggiabile forza repressiva, che sa come scaricare sui dirigenti periferici anche le proprie responsabilità, che in 25 anni ha sollevato dalla miseria oltre 700 milioni di persone servendosi anche della confuciana filosofia dell’obbedienza.

Probabilmente non basterà nemmeno la pioggia di indignazione e critiche piovute sui vertici del paese, dai social locali, dopo la morte di Li Wenliang. Medico a Wuhan, per primo e con forte anticipo aveva lanciato l’allarme sulla pericolosità del “coronavirus”.

Interrogato dalla polizia il primo febbraio, ammonito per “diffusione di false notizie”, a sua volta contaminato, e deceduto all’inizio di questo mese. Gli uomini del presidente Xi Jinping hanno autorizzato la diffusione delle immagini di molti cittadini in lacrime per la sorte del medico. Ma la cortina della censura è subito scesa drasticamente quando la critica si è alzata di livello. Fino a sollevare il tema delle libertà di pensiero, di parola e di associazione.

Così è probabile che il dottor Li rimarrà “soltanto” il primo martire cinese di coronavirus.

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