L'analisi

La Francia paralizzata da un groviglio di contraddizioni

Quelli che hanno incrociato le bracccia non vogliono che il sistema pensionistico venga modificato. Tuttavia una netta maggiornaza è convita che vada rivisto

Sciopero ad oltranza (Keystone)

Rimane un caso a parte e un groviglio di contraddizioni la Francia. Dopo l’ondata di sabati dei gilet gialli, tocca ora al servizio pubblico mettere sotto pressione, con uno sciopero ad oltranza, il governo eletto su quel programma di riforme che sta cercando di far attecchire per scongiurare l’esplosione del debito pubblico. Pomo della discordia il sistema pensionistico.

Il paradosso lo fotografano i sondaggi: una netta maggioranza dei francesi è convinta che il sistema vada rivisto, una maggioranza quasi altrettanto importante della popolazione sostiene chi invece, incrociando le braccia, questo sistema di privilegi non vuole modificarlo. Singolare.

Sì, perché di privilegi il welfare transalpino è imbottito. In sostanza il presidente Macron vuole sopprimere il complesso sistema dei regimi speciali (sono ben 42) che regolano le pensioni. A trarre vantaggio dallo statu quo è il 20% della popolazione che opera nel settore pubblico: treni (Sncf), metropolitana parigina (Ratp), insegnamento eccetera.

L’80% dei francesi, in sostanza chi opera nel settore privato, è invece sottoposto a un regime generale. Una discriminazione plateale che si può riassumere in qualche dato. La pensione dei privati è fissata al 50% della media dei salari di 25 anni. Quella dei regimi speciali è calcolata al 75% degli ultimi sei mesi di stipendio.

E mentre il francese non sottoposto a regimi speciali stacca dal lavoro in media a 63 anni, un macchinista della metropolitana a Parigi può beneficiare della pensione piena anche a soli 50 anni e 8 mesi, incassando oltretutto mediamente 1’200 euro mensili in più. Solo lo 0,5% di chi non è sottoposto a regimi speciali può andare in pensione prima dei 60 anni. Nel caso delle Sncf (la società ferroviaria nazionale) sono invece 9 impiegati su 10 a beneficiare del pensionamento prima del sessantesimo compleanno. Un abisso.

Il governo ha dalla sua i numeri, ma la battaglia si preannuncia ardua. E come sempre in questi casi retorica e corporativismo hanno il vento in poppa: non solo tra gli oltranzisti del sindacato Cgt che tentano di arginare il declino cavalcando il malcontento, ma pure nelle file della destra nazionalista di Marine Le Pen che ha tacciato la riforma di “hold up del secolo”. Formula forse efficace quanto vuota nei contenuti.
Perché la riforma è ineludibile per salvare il welfare ed evitare il tracollo delle casse pubbliche. A scontare lo smacco politico, prima di Macron, sono stati in molti, in primis il premier Juppé nel lontano 1995. 3 settimane di scioperi lo indussero a gettare la spugna. Ma non si scappa: la demografia impone una revisione dei parametri della “sécurité sociale” introdotti nell’immediato dopoguerra, mentre la globalizzazione mette in competizione sistemi e modi di produzione su scala mondiale.

Ecco allora che il big bang macroniano sulle pensioni appare come la madre di tutte le riforme, in un Paese in cui si culla ancora l’illusione mai sopita di una grandeur irrimediabilmente tramontata. Certo la protesta traduce anche un disagio più grande di fronte alle disparità sociali e riassume i timori dell’incertezza che porta ovunque la società liquida. Ecco perché tra i manifestanti non troviamo solo i privilegiati del settore pubblico.

Sta di fatto che Macron ha incarnato la volontà riformista. Per questo è stato eletto. Per questo, non potrà permettersi retromarce.

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