L'analisi

Cade il segreto cinese: sono campi di concentramento

Milioni di musulmani, molti di etnia uigura, imprigionati. Sistematica violazione dei principali diritti umani

No, non sono “centri di educazione e formazione” come le autorità cinesi vogliono far credere. Le due inchieste condotte dal ‘New York Times’ e dall’Icij, un consorzio di 17 testate internazionali, rivelano quanto già da anni si sospettava, grazie in particolare al lavoro di Human Rights Watch.

Nella regione settentrionale dello Xinjiang oltre un milione di musulmani, per la maggior parte di etnia uigura, è detenuto senza processo in campi di concentramento sulla base di schedature informatiche effettuate da poliziotti, funzionari, quadri dirigenti, docenti a cui le autorità hanno consegnato un’apposita applicazione per smart­phone.

Basta non essere fumatore, non bere alcol, recitare la preghiera, aver viaggiato all’estero, per finire nella sezione sbagliata dei big data ed essere, per decisione di funzionari (abilitati a fornire nella pura distopia orwelliana “commenti negativi” sui sospetti) o semplice elaborazione statistica di algoritmi, deportato in questi enormi centri di detenzione.

Anche utilizzare Kuai ya, un’applicazione molto diffusa in Asia e che consente di comunicare senza passare dai server, è ragione sufficiente per essere arrestati. A volte basta l’anagrafe a farti fare una brutta fine: maschio di età tra i 20 e i 60 anni e di etnia uigura. Circolari e direttive del Partito comunista che i giornalisti investigativi sono riusciti ad ottenere raccontano una realtà di sistematica violazione dei principali diritti umani.

Un uiguro su dieci è attualmente detenuto. Sottoposto a “rieducazione”, ma anche, stando a testimonianze dirette, a isolamento, vessazioni, torture. In una sola settimana nel sud dello Xinjiang, quasi 25mila arresti arbitrari. Imbottiti da milioni di riconoscimenti facciali ormai effettuati a tappeto in tutto il paese, i big data sono lo strumento di questa gigantesca ondata di repressione indiscriminata, acceleratasi negli ultimi due anni in nome della lotta al terrorismo.
Gli scontri interetnici del 2009 tra gli uiguri e gli han, l’etnia maggioritaria, e la serie di attentati islamisti del 2013-14, sono all’origine del giro di vite oppressivo. Ma stando al ‘New York Times’, che ha beneficiato di una (storica in un paese blindato) soffiata dai vertici del regime, l’allarme sul pericolo che costituirebbero gli uiguri risale all’11 settembre 2001.

La paura del radicalismo islamico si è tramutato in una lotta contro i musulmani in generale. Tra i documenti nelle mani del quotidiano nuovayorkese, anche trascrizioni di interventi riservati dello stesso Xi Jinping per il quale chi è intrappolato nell’estremismo religioso ha “la coscienza distrutta e perde la propria umanità”.

Parole condivisibili, certo, meno condivisibile però il successivo passo in cui il presidente invita a utilizzare tutti gli strumenti per sradicare l’Islam nello Xinjiang.

Nel paese che detiene il record di esecuzioni capitali (cifra superiore al totale di tutti gli altri paesi) le rivelazioni dei “China Cables” non sorprendono. Anche perché lo Xinjiang è area strategica decisiva per le vie della seta nell’Asia Centrale. Quelle vie della seta che Pechino utilizza ormai come arma di ricatto: non è un caso che in una precedente denuncia per la repressione degli uiguri, 54 paesi si fossero schierati all’Onu dalla parte dei cinesi. Tra di essi 24 stati africani e diversi paesi musulmani, proprio quelli interessati dalla nuova espansione economica del colosso asiatico.

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