L'analisi

I falliti dell’Ilva

Di fallimento in fallimento, di ricatto in ricatto, il declino industriale dell’Italia si sta rapidamente completando

6 novembre 2019
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Di fallimento in fallimento, di ricatto in ricatto, il declino industriale dell’Italia si sta rapidamente completando, complice un ceto politico il cui declino è persino più accelerato. La possibile chiusura dell’Ilva di Taranto, la piu grande acciaieria d’Europa, ne è un’estrema conferma e in un certo senso fa scuola.

Alle pretese di un capitalismo rapace (ma ce n’è uno diverso?), si accompagnano l’inettitudine di un governo a cui sarebbe ingeneroso assegnare tutte le colpe ignorando quelle degli esecutivi che l’hanno preceduto, e una situazione ambientale e sanitaria catastrofica.

Il tutto entro la cornice di una crisi epocale, quella dell’industria “pesante”, causa ed effetto della post-modernità.
In sintesi: la grande acciaieria di Taranto da cui dipendono il sostentamento di migliaia di famiglie e parte della ricchezza nazionale, è la stessa a cui si devono migliaia di morti e patologie estese a livello quasi pandemico. L’Ilva ha conosciuto la sorte dei grandi conglomerati, accollati a suo tempo allo Stato per evitarne il fallimento, di nuovo passati in mani private negli anni trionfali delle privatizzazioni, dissanguati da sedicenti capitani d’industria che di volta in volta se li sono spartiti.

La fine, di mera origine ideologica, non solo della proprietà ma anche del controllo pubblico di settori strategici è il precedente necessario di tali dinamiche. Cosicché sono ora le grandi società a dettare le condizioni ai governi per mantenere le produzioni in un sito piuttosto che in un altro: dai vantaggi fiscali (fino ai più scandalosi) alle deroghe in tema di sicurezza sul lavoro e di impatto ambientale.

Una delle condizioni poste da Arcelor Mittal (la società indo-francese interessata all’acquisto dell’Ilva) era il cosiddetto “scudo penale” per assicurare la non perseguibilità per reati ambientali dei propri dirigenti, limitatamente al periodo di adeguamento della produzione agli standard di protezione ambientale, così da non dover fermare gli impianti, col rischio di non riaprirli più. Una delle condizioni, abbiamo detto; forse la scusa per ritirarsi da un contratto in considerazione delle difficoltà del mercato mondiale dell’acciaio; o una mossa negoziale. Ad ogni modo, lo scudo fu confermato dal governo precedente, e revocato pochi giorni fa da quello in carica. Di entrambi il socio di maggioranza è il movimento 5Stelle.

Si chiami ricatto, se si vuole, quello della società, e probabilmente lo è. La cui gravità è tuttavia ingigantita dall’inettitudine del personale politico che ha preteso di occuparsi della questione da posizioni decisionali. La chiusura dell’Ilva è stata sin dalle origini una delle bandiere dei grillini, a testimonianza del livello-Greta delle loro capacità di governo e dell’onestà intellettuale di chi li manovra. L’Ilva inquina? Chiudiamola. La chiusura genera disoccupazione? Occupiamo gli operai nel grande parco che sorgerà al suo posto. L’Italia (insieme ad altri paesaggi del mondo de-industrializzato) è piena di deserti apertisi dove si erano promesse riconversioni industriali. E il degrado e le morti che quegli abbandoni hanno prodotto sono stati autentici massacri: tragedie individuali e smarrimento di massa.
Nessuno può onestamente affermare di conoscere il modo di uscire da questo passaggio. Resta che l’elementare opposizione lavoro-tumori, non consegna soltanto un formidabile argomento agli industriali – “o così o dislochiamo dove non fanno troppe storie” – ma è anche stupida e cinica. Ignorante della complessità e del costo di una trasformazione storica del lavoro, dei luoghi in cui si pratica, e soprattutto del suo insostituibile ruolo sociale. Che non saranno le baggianate sul potenziale di una società “smart” basata su internet a compensare.

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