L'analisi

Qui Mosca, a voi Perugia

Allora Salvini non andava a Mosca per “fare turismo”; vi incontrava chi dice di non avere incontrato; “lavorava” per chi sosteneva di non conoscere neppure

29 ottobre 2019
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Allora Salvini non andava a Mosca per “fare turismo”; vi incontrava chi dice di non avere incontrato; “lavorava” per chi sosteneva di non conoscere neppure. E si aspettava qualche soldo, per le necessità.

Qualcuno dirà: anche la Democrazia cristiana prendeva i soldi da Washington, e il Partito comunista da Mosca. Vero. L’una e l’altro prendevano “ordini” dagli Stati Uniti (e a cinquant’anni da Piazza Fontana è un dolore antico che si risveglia) e dall’Unione sovietica (ma il Pci tra la rivoluzione e la lealtà costituzionale scelse la seconda). Vero anche questo. E cercavano, e mantenevano relazioni con movimenti idealmente, ideologicamente, affini, in una rete estesa nel mondo. Niente di nuovo. Se non lo stile: come non ricordare Di Maio posare in Francia per la foto ricordo con gli effimeri gilet gialli, e Salvini a Washington fare anticamera al Dipartimento di Stato?

In ogni caso non è lecito volgere indietro lo sguardo per derubricare a pettegolezzo elettorale, o frutto di fantasticherie giornalistiche (ultimo il dossier trattato dalla trasmissione Rai ‘Report’) la pubblicazione di notizie e documenti che inchioderebbero la Lega di Matteo Salvini a una sorta di “internazionale nera” nella quale confluiscono estreme destre assortite, nazionalismi baciapile e finanziatori neppure così occulti.

La questione è infatti ben grave. Non tanto, ripetiamolo, per una ‘naturale’ ricerca di compagnia tra chi si somiglia, ma proprio per la natura di tale somiglianza e per la pervicace menzogna con cui Salvini cerca di occultarla. La lunga confidenza (e in qualche misura la subalternità) intrattenuta dalla Lega Nord con l’estrema destra eversiva e neofascista domestica precede l’avvento di Salvini alla segreteria, ma con lui – complice un quadro internazionale in rapido mutamento – si è estesa a una rete internazionale che fa capo a Mosca ma riesce a mettere insieme centrali di diffusione ideologica basati oltre Atlantico e ‘antenne’ locali irrorate di dollari e, sembra, di rubli. I Bannon e i Dugin (l’ideologo nazional-bolscevico con una barba da Solgenitsin che scommette su Salvini per la propria rivoluzione clerico-reazionaria): gli “uffici affari riservati” di Casa Bianca e Cremlino, in qualche modo. Non soltanto una congrega di invasati casa-e-chiesa (della quale le filiazioni italiane sono le più grottesche), ma agenzie che si propongono espressamente il rovesciamento delle democrazie europee (già date per spacciate da Putin in persona) o quantomeno la loro subordinazione a un restaurato ordine clerico-fascista.

Dunque, pur fatta la tara all’enfasi che sovente accompagna anche le più meritevoli inchieste giornalistiche italiane, il quadro non potrebbe essere più inquietante. E non importa qui distinguere tra l’autenticità della “fede” professata da Salvini, e il suo notorio opportunismo. Perché l’opportunismo non sottrae dalle responsabilità e dalle colpe, quando per opportunismo si fa squadra con i fascisti o ci si subordina a disegni altrui. Soprattutto se si ricorda che Salvini non risulta aver interrotto i legami con quel mondo quando è stato ministro dell’Interno, con autorità sui servizi di intelligence dello Stato. Anche per questo, oltre che per le scelleratezze del suo discorso politico, Salvini è pericoloso.

Pericoloso? Ma dove? Non passa elezione senza che i votanti lo premino, ultimi gli umbri. Il vantaggio ideologico di cui gode supera di gran lunga ciò che la realtà potrebbe fargli scontare. In tempi di “fatti alternativi” è chi la racconta meglio ad avere ragione.

 

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