L'analisi

L'Isis dopo la morte di al-Baghdadi

L'uccisione dell'autoproclamato Califfo dello Stato Islamico da parte degli Usa non eliminerà il 'fascino' del radicalismo estremista

Al-Baghdadi nella moschea di Mosul il 5 luglio 2014 (Keystone)

Non stava più nella propria pelle Donald Trump: il presidente non ce l’ha fatta ad aspettare fino alla conferenza stampa, così ha comunicato quello che era ormai già un segreto di pulcinella con un puerile tweet: “Something very big has just happened”. Poi davanti ai giornalisti ha raccontato i contorni del raid con il quale gli americani hanno ucciso Abu Bakr al-Baghdadi. Il fondatore e leader dello ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante’ (Isis o Daesh secondo l’acronimo arabo) si sarebbe fatto saltare in aria con la sua cintura esplosiva durante uno scontro a fuoco con forze americane nella provincia settentrionale di Idlib, in Siria, ultima roccaforte territoriale delle diverse milizie jihadiste. Morto “come un codardo, come un cane”.

Ricomparso in un video nella scorsa primavera, l’autoproclamato Califfo era riuscito a far perdere le proprie tracce anche dopo la caduta delle due ‘capitali’ del Califfato, Mosul in Iraq nel luglio del 2017 e Raqqa nell’ottobre dello stesso anno. Secondo fonti dell’intelligence aveva recentemente consegnato il testimone di leader dell’organizzazione terroristica a Abdullah Qardash, un iracheno con cui ha condiviso crudeltà e spietatezza, per anni braccio destro di Abu Ala al-Afri. Quest’ultimo è stato generale di Saddam Hussein. Iracheno dunque come al-Baghdadi e tanti altri. Questo per ricordarci che Daesh è il prodotto della ‘madre di tutte le guerre’ che hanno devastato il Levante negli ultimi due decenni: l’invasione americana in Iraq nel 2003. Fu in quell’anno che Paul Bremer, plenipotenziario americano in Iraq, smantellò i due baluardi anti-fondamentalisti, il partito Ba’th (order number one) e l’intero esercito iracheno (order number two). Di colpo 400mila soldati, compreso tutto lo stato maggiore a maggioranza sunnita, persero il posto di lavoro. Nascita e ascesa dell’Isis e di Abu Bakr al-Baghdadi sono indissociabili da quella scellerata decisione.

Nel criticare l’Europa, Trump ha dimenticato di ricordare la genesi dello Stato Islamico, sorto sulle ceneri dei bombardamenti in Iraq. L’Isis, di matrice sunnita, si profilò subito per la spietatezza con la quale prese di mira cristiani e soprattutto sciiti, spietatezza che disorientò addirittura Osama Bin Laden. Ma così come l’uccisione, nel maggio del 2011, del terrorista saudita (“meno importante di al-Baghdadi” – dice Trump per sminuire l’odiato predecessore Obama) che ordì la strage dell’11 settembre non segnò la morte di Al-Qaida (risorta in Siria sotto varie denominazioni), è molto probabile che l’eliminazione di al-Baghdadi non segnerà la scomparsa dell’Isis.

Il predicatore dell’odio, che nell’immaginario collettivo è immortalato nella moschea di al-Nuri, a Mosul, mentre il 5 luglio del 2014 si proclama Califfo (‘Califfo Ibrahim’) di tutti i musulmani, ovverosia dell’intera comunità islamica mondiale (al-Umma al-islamiyya), ha condiviso la responsabilità di decapitazioni, massacri, impalature di apostati, con una moltitudine di fanatici di Dio, spesso in lotta tra di loro. Con la caduta di Baghuz (Siria orientale) nello scorso mese di marzo, l’Isis ha perso il controllo territoriale, ma l’attrattività se non il fascino che esercita tra molti sunniti soprattutto giovani, mediorientali ma anche occidentali, è estremamente forte. Anche perché le correnti più radicali del salafismo si nutrono sia del caos ereditato dell’invasione Usa sia da quell’humus ideologico estremista, propagandato per anni nelle scuole coraniche che si rifanno al wahhabismo saudita, e che proprio Riad e alcune capitali del Golfo hanno generosamente foraggiato. Qualcosa di ‘very big’ è in effetti successo. Ma certamente non basterà per uccidere l’idra dell’Isis.

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