L'analisi

Petrolio sul fuoco

Uno sciame di droni che esplodono su due giganteschi impianti petroliferi dimezzando di colpo la produzione dell’Arabia Saudita

16 settembre 2019
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Uno sciame di droni che esplodono su due giganteschi impianti petroliferi dimezzando di colpo la produzione dell’Arabia Saudita, primo Paese esportatore di oro nero al mondo. Una rivendicazione, quella dei ribelli houthi yemeniti (sciiti e in guerra da quattro anni contro il presidente Hadi e i sauditi, oltre all’Isis e Al Qaida), a cui gli Usa non vogliono credere, puntando il dito direttamente sul loro sponsor, l’Iran. Alcune bellicose dichiarazioni squinternate, tra cui primeggia quella del senatore repubblicano della Carolina del Sud Lindsey Graham, passato dai ranghi anti Trump a quelli dei fedelissimi più incondizionati: “Attaccare subito in rappresaglia le raffinerie iraniane”.

E poi lui, il presidente americano, che dopo aver silurato gran parte dei suoi consiglieri, si ritrova da solo a decidere come procedere in questo nuovo disordine mondiale a cui ha fornito un decisivo contributo. Su che numero si fermerà la pallina della sua roulette cerebrale quando dovrà decidere la risposta politica della superpotenza? Lui che sembra ormai la caricatura di se stesso ogni volta che parla, alla ricerca disperata di un successo diplomatico in chiave rielezione.

L’attacco di sabato non è il primo contro centri petroliferi sauditi, ma è il primo di tale ampiezza, segnale di un’escalation che potrebbe risultare micidiale. I due centri petroliferi colpiti (tra cui quello di Abqaiq, il più grande al mondo) producono 5,7 milioni di barili al giorno; lì converge il greggio di diversi pozzi prima di essere esportato nelle raffinerie sotto forma di sweet, quello più pregiato.

L’abbraccio di Trump a Mohammed bin Salman, tiranno spregiudicato che oscilla tra ferocia e riforme, ha rafforzato la storica alleanza tra i due Paesi, entrambi schierati e impegnati sul fronte anti sciita e anti siriano. Non è un mistero che le sanzioni contro l’Iran, rafforzate proprio mentre Teheran si era impegnato a rispettare il trattato anti atomico sotto la stretta sorveglianza internazionale, siano viste di buon occhio sia da Riad, sia dal governo israeliano.
Che l’Iran possa essere per lo meno il mandante degli attacchi a suon di droni è possibile, se non probabile. E fa pure parte degli scenari verosimili l’idea che si tratti di una strategia degli iraniani per ritornare con forza su quel proscenio della diplomazia da cui Donald Trump li ha cacciati. Per poi, apparentemente, ricredersi avanzando l’idea di un summit con il suo omologo Hassan Rouhani, ipotesi che ha ventilato assieme a quella, fallita all’ultimo minuto, di un vertice a Camp David con i Taleban afghani, cancellato poi improvvisamente con un tweet.

Un’infilzata di rovesci, di cui fanno parte anche i disperati tentativi di far rinsavire il dittatore e ora “amico” nord coreano Kim Jong-un, ai tempi battezzato dallo stesso Trump un piccolo e grasso “rocket man”.

Insomma nell’era Trump, salvo lo scontato aumento del greggio all’apertura dei mercati, lo scenario apertosi con l’attacco di sabato al centro petrolifero saudita è all’insegna della totale incertezza. Il conflitto sciiti-sunniti potrebbe pericolosamente estendersi anche all’alleato iracheno (che però è a maggioranza sciita) oltre che all’Iran, nel caso in cui il presidente seguisse lo sciagurato consiglio del senatore Graham.

Eliot Cohen, professore alla John Hopkins, non si avventura in ipotesi, missione impossibile – dice – con questo presidente alla ricerca disperata di un successo; “erratico, impaziente, intellettualmente pigro e ossessionato dalla propria immagine”. Tutto, a questo punto, sembra possibile.

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