L'analisi

Trincee commerciali: gli Usa, la Cina e la ‘guerra’ dei dazi

Trump introduce nuove barriere per bloccare i beni cinesi, Xi Jinping risponde svalutando lo yuan. Alla fine ci perdono tutti

6 agosto 2019
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Che una guerra commerciale fra colossi come gli Usa e la Cina non promettesse nulla di buono, e che lo sguaiato protezionismo di Donald Trump potesse diventare autolesionismo, si intuiva da tempo. Solo negli ultimi giorni, però, i mercati finanziari paiono avere preso piena coscienza di quello che sta capitando. L’annuncio di nuovi dazi Usa del 10% su 200 miliardi di importazioni cinesi, e la conseguente scelta della Cina di svalutare lo yuan per ridare a quelle merci la competitività perduta, ha fatto sì che indici e titoli perdessero diversi punti percentuali (fino al 5% per quelli trainanti nel settore delle tecnologie, come Apple e Microsoft). Nel 2019 Wall Street e le altre Borse non erano andate mai tanto male quanto negli ultimi giorni. È grave, dottore?

Dietro ai numeri

Il premio Nobel Paul Krugman ha notato che per ora la questione pare abbastanza circoscritta: i dazi contano per lo 0,1% del Pil americano e per lo 0,15% di quello cinese; la valuta cinese si è svalutata di poco, con un dollaro che ora compra 7 yuan invece di 6,9 – oltrepassando “un’importante soglia psicologica”, come ha scritto l’‘Economist’, ma senza scivolare ad esempio come la sterlina, che da maggio ha perso il 9%.
Il problema è che questi sussulti, pur apparentemente tenui, si inseriscono in un contesto economico e geopolitico già compromesso. I dazi di venerdì si aggiungono a quelli di maggio, e rischiano di frenare importazioni cruciali per l’economia americana: in un’economia fortemente globalizzata moltissimi settori – da quello calzaturiero alla Silicon Valley – dipendono da materie prime e componenti cinesi. Preoccupa soprattutto che il presidente Usa si dimostri ancora convinto che i dazi funzionano, mentre tanto i consumatori quanto le aziende ne stanno già pagando il conto pur reso meno salato dal concomitante abuso di sgravi e sussidi. E questo senza che la prova di forza abbia spinto la Cina al compromesso, tanto che è dell’altro giorno il suo bando sui prodotti agricoli americani, proprio quelli per i quali il presidente Usa chiedeva più apertura.

La presunta ‘manipolazione’

Quanto alla svalutazione cinese, oltre ad ‘annullare’ le barriere americane potrebbe indurre altri Paesi asiatici a seguire la direzione del loro pesce-pilota. Il tutto in un momento in cui la crescita a Pechino sta già rallentando: quest’anno il suo Pil sta crescendo del 6,2%, che sembra molto per economie già sature come quelle europee, ma per la Cina è il dato peggiore da 27 anni. L’effetto dei dazi non si è ancora fatto sentire davvero, ma potrebbe non tardare. La svalutazione potrebbe poi mettere in difficoltà le aziende cinesi, già fortemente indebitate con prestiti emessi dall’estero e denominati in dollari (quindi più ‘cari’ da ripagare ora che lo yuan vale meno).
Il Dipartimento del tesoro Usa infiamma ulteriormente la questione denunciando una “manipolazione valutaria” e chiedendo l’intervento del Fondo monetario internazionale, anche se le cose non sembrano stare proprio così: la Cina non ha effettuato quegli interventi massicci sui mercati internazionali che contraddistinguono una manipolazione, ma ha semplicemente lasciato scendere una moneta finora sopravvalutata in nome delle buone relazioni commerciali. Così la strategia di Trump si rivela controproducente: le incertezze create dal protezionismo spingono gli investitori verso beni-rifugio come le obbligazioni denominate in dollari, i quali quindi tendono a salire di valore frenando la competitività americana.

Pietra d’inciampo

Quando si azzuffano le grandi potenze, poi, il rischio molto concreto è che ci vada di mezzo tutto il mondo. Le filiere di produzione di quasi tutti i beni attraversano oggi decine di frontiere: quel ‘disegnato in California, assemblato in Cina’ scritto sul retro dei nostri smart­phone ne è una buona sintesi. Il rischio è che si creino inciampi, colli di bottiglia e costi eccessivi per le imprese, sia nei Paesi in via di sviluppo che in Europa. E che anche qui la corsa a beni e valute percepiti come più solidi scombussoli le dinamiche di import/export (nel caso della Svizzera, verosimilmente penalizzando le esportazioni a seguito di una rivalutazione del franco).

Guerra economica

La cosa più preoccupante è che una guerra commerciale sta diventando una guerra economica tout court: non coinvolge cioè solo beni e servizi, ma finisce per boicottare interi settori produttivi. Anche perché dietro alle ostilità si cela la competizione per il predominio tecnologico, la stessa che passa da accuse e controaccuse circa brevetti e violazioni della sicurezza nazionale (si pensi alla lotta di Trump contro il colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei).
Volendo allargare ulteriormente l’inquadratura, si può concludere che questi tormenti sono il primo prodotto tangibile dell’epoca cosiddetta “sovranista”, ovvero – e più propriamente – nazionalista. Epoca nella quale due maschi alfa come Trump e Xi Jinping utilizzano la tanta demonizzata globalizzazione come punching ball per le loro prove di forza. Non è poi detto che le trincee di banconote diventino trincee di fango. Ma è sempre meglio starci un po’ attenti.

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