IL DIBATTITO

Congiunzione, passo avanti o indietro?

Commento sulla congiunzione delle liste alla luce del ticket tra Merlini e Lombardi

(Ti Press)
20 luglio 2019
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Mi chiede, questo giornale, un parere sulla congiunzione delle liste. La questione non mi appassiona: appare chiaro che la congiunzione a livello federale è suggerita dall’opportunità politica, dalla necessità di salvaguardare le posizioni acquisite. E non occorrono altre spiegazioni. I problemi si complicano quando si auspica una congiunzione a livello cantonale fra due partiti con matrici culturali molto diverse e per molto tempo antagoniste, e non sono sicuro che il passato non forgi il presente. Ci sono dei meccanismi identitari e di identificazione che hanno a che fare con la storia e l’immaginario collettivo e poco o niente hanno a che vedere, come qualcuno sostiene, con rigurgiti nostalgici: ogni partito ha un patrimonio genetico, una memoria fatta di idee e visioni che possono essere adattate alle contingenze dell’attualità, ma non possono essere snaturate o cancellate: c’è chi ci ha provato e i contraccolpi si sono avvertiti, da un quadriennio all’altro.

Più facile dove vi sono polarizzazioni

La congiunzione è più facile dove vi sono delle polarizzazioni, a destra e a sinistra, perché lì non si tratta per gli attori politici di mediare fra obiettivi divergenti ma di graduare e regolare l’intensità dei propositi e calibrare degli orientamenti condivisi. Congiungere al centro è più arduo perché si tratta di trovare intese improbabili fra orientamenti talvolta addirittura antitetici. Al centro – se così vogliamo definire uno spazio assai nebuloso e incerto – troviamo posizioni molto diverse e in alcuni casi inconciliabili. In questo caso la mediazione diventa un’estenuante trattativa che conduce inesorabilmente il pensiero pubblico a un livello di conformismo che – come sottolinea Alain Deneault – diventa il carattere peculiare del programma politico. Non è quanto richiesto per ridare una nuova vitalità ai partiti.

Ammissione di debolezza

In un modo o nell’altro, la proposta di congiunzione è comunque un’ammissione di debolezza: di fronte all’incapacità di porre un argine alla crisi dei rispettivi partiti e all’erosione del consenso quadriennio dopo quadriennio, si cerca di unire le forze, di rimediare con una sorta di alleanza che potrebbe non funzionare, perché, come si è detto, a votare sono cittadini con sensibilità e umori diversi, e non sempre in questi casi uno più uno fa due: qualche volta fa zero. Il progetto di congiunzione si fonda poi sulla convinzione che le ideologie siano morte e che oggi a contare sia la politica del pragmatismo e della concretezza, della politica intesa come “governance”, come gestione aziendale delle istituzioni dello Stato: che le ideologie siano morte mi pare clamorosamente smentito dall’attualità; è invece sicuramente vero che la politica è stata ridotta per gran parte ad “arte del management” e i dibattiti pubblici per discutere del bene comune non sono richiesti e graditi dai gestori della cosa pubblica. Proprio i vertici dei partiti che hanno decretato con sollievo la fine delle “maledette ideologie” sono i responsabili più o meno inconsapevoli – ed è questo il grande paradosso – di un’ideologia perniciosa che dagli anni 90 ha monopolizzato e fagocitato la politica e l’azione dei partiti, a tal punto da essere considerata una sorta di legge naturale: è la ferrea legge neoliberista “dello sgocciolamento della ricchezza dall’alto verso il basso”, ha avuto effetti devastanti, è quotidianamente smentita dai fatti, ma continua ad avere accaniti sostenitori.

Buone ideologie dimenticate e rinascita di quelle brutte

Chi si occupa da vicino di queste cose avverte che è proprio la colpevole latitanza di una coraggiosa e dichiarata militanza ideologica – fondata sui grandi valori di libertà, eguaglianza e solidarietà – che ha consentito la prepotente rinascita delle brutte ideologie: quelle dei muri, della xenofobia, delle democrature alla Putin e alla Orbán che irridono la democrazia liberale. Anche lo storico Fukuyama – quello che nel 1989 decretò il trionfo definitivo della democrazia liberale – si è ricreduto e ammette che dobbiamo darci da fare per combattere la barbarie che si profila. Ai rigurgiti di triste memoria è quindi urgente contrapporre una nuova idea di politica fatta sì di buon senso, ma fatta soprattutto di una nuova forma di intransigenza ideologica, quella che non scende a patti con il populismo di destra che sta influenzando, anche là dove non è al potere, l’azione di tanti governi. Quindi, se una colpa l’abbiamo avuta è proprio quella di aver dimenticato le buone ideologie e di aver ritenuto che la democrazia liberale si sappia difendere da sé. Non è così.

Destra e sinistra? No, pragmatismo!

Nel nostro Cantone l’establishment dei partiti storici ha ripetuto per anni in assemblee, nei congressi, sui giornali che finalmente le distinzioni fra destra e sinistra erano superate. E questo lo si diceva proprio negli anni in cui le distanze sociali, le diseguaglianze e la povertà si accrescevano a dismisura, anche nel nostro paese. Si sosteneva e si sostiene, con parola abusata, che la politica è “pragmatismo” e i dibattiti interni fra anime e correnti sono roba vecchia e dannosa. Una concessione imperdonabile, quest’affermazione, all’ignoranza storica: appena i nostri leader avessero guardato indietro si sarebbero accorti che sono stati proprio i grandi dibattiti interni, l’incontro e lo scontro virulento delle idee, ad aver tenuto agganciati i partiti ai bisogni reali del paese.
Oggi è proprio questa forza, questa capacità di connettere dei sistemi di idee con l’azione che è venuta a mancare nei partiti. Vale per il partito popolare democratico e vale in particolare per il partito liberale radicale che sempre ha fatto del dialogo intenso, costante, talvolta duro fra le due anime la sua grande forza di propulsione: morto il dialogo sono morte pure le idee e l’assenza di idee è stata pietosamente occultata dietro la nozione feticcio di “pragmatismo” che non vuol dire niente. Non mi soffermo: basta aprire un buon libro di storia – abitudine, temo, caduta piuttosto in disuso – per trovare conferma.

Congiunzione su quali valori condivisi?

A questo punto, per ritornare all’oggetto del contendere, si auspica una congiunzione fra liberali e popolari democratici sulla base di valori condivisi? D’accordo, ma quali sono questi valori? C’è sintonia sul concetto di scuola pubblica? E come la mettiamo con i complessi temi sulla famiglia? E sul rapporto fra politica ed economia, come conciliamo i duri e puri del neoliberismo con le varie sensibilità sociali che lo detestano? E in materia di politica tributaria dov’è la quadra? E il grande tema centrale dei migranti come lo affrontiamo? E l’ambiente? E tanto altro? Non vado oltre. Si può fare tutto, ma nego, credo con qualche ragione, che la proposta di congiunzione possa contribuire a risollevare la sorte dei due partiti. Penso invece il contrario. Penso sia una clamorosa dichiarazione di resa e di impotenza, fondata su di una cattiva lettura della realtà. Perché non si tratta, se vogliamo provare a cambiare l’immagine declinante dei partiti come agenti prevalentemente impegnati ad amministrare le risorse dello Stato, di applicare un cerotto all’esistente, bensì di prospettare una profonda rigenerazione dei contenuti con una spietata autocritica sul loro operato, di individuare senza sconti per nessuno le ragioni profonde dei loro fallimenti. La congiunzione non rigenera ma arrocca e non rinnova.

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