L'analisi

La guerra che verrà

La sceneggiatura non può non farci ricordare il 2003

Keystone
8 luglio 2019
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La sceneggiatura non può non farci ricordare il 2003. La trama ha molti punti comuni, tra cui il protagonista indiscusso. Che ne è anche l’autore. Cambiano alcuni attori, ma i venti di guerra non lasciano sperare nulla di buono.

Come nel 2003, gli Stati Uniti d’America si stanno attivando per mettere con le spalle al muro una potenza mediorientale. Nel 2003 le false accuse mosse all’Iraq sui fantomatici stock di armi di distruzione di massa, portarono ai massicci bombardamenti e al devastante incendio che divampò in tutta la regione generando il caos di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Tra gli entusiasti della “madre di tutte le battaglie” inscenata da Washington, troviamo l’avvocato John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, un ‘warmonger’ (guerrafondaio) in cui gli avversari democratici intravedono una versione aggiornata del generale Ripper, il Dottor Stranamore che nella celebre pellicola di Stanley Kubrick, con il suo bellicismo trascina il Paese all’olocausto nucleare.

Fautore dell’intervento contro l’Iraq nel 2003 e del cambiamento di regime in Siria e Libia, Bolton spinge oggi per un attacco contro Teheran. Il Pentagono frena. Il presidente riscalda i muscoli dell’oratoria aggressiva, ma esita.

L’Iran ha dunque messo in atto ieri la minaccia di arricchire l’uranio oltre la soglia del 3,67% fissata dagli accordi del 2015. Uscendo virtualmente dall’intesa firmata dai 5 + 1 (i membri del Consiglio di sicurezza oltre alla Germania) e accelerando quell’escalation avviata dall’amministrazione Trump con il plauso di Israele e dell’Arabia Saudita.

Il valore di questo primo pericoloso passo è al momento simbolico e politico. Tecnicamente, anche per la drastica riduzione delle centrifughe conseguente all’accordo, ci vorrebbe – dicono gli esperti – almeno un anno per arricchire una quantità sufficiente di uranio di qualità bellica al 90%.

L’America di Trump sta creando ad arte un nuovo casus belli? L’interrogativo è più che legittimo. Non solo considerando il famoso precedente del 2003. In effetti i rapporti pubblicati a cadenza trimestrale dall’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, hanno sempre attestato il rispetto da parte di Teheran degli impegni assunti, smentendo così le accuse americane. Per Benjamin Hautecouverture, uno dei massimi esperti mondiali sulla proliferazione nucleare, tra sorveglianza con videocamere e sistematiche ispezioni non annunciate da parte degli esperti dell’Aiea, il controllo sul nucleare iraniano è il più invasivo al mondo. Il rischio dunque è di buttare a mare l’enorme lavoro (21 mesi di negoziati) che pose fine a 6 anni di braccio di ferro tra Teheran e la comunità internazionale.

Non appena eletto Trump, gli Usa sono usciti da quell’accordo, muovendo accuse non provate, applicando sanzioni che soffocano totalmente il Paese anche perché, come nel caso di Cuba, sono extraterritoriali, si applicano cioè anche a Paesi terzi, i quali senza molto successo hanno tentato, sulla spinta della Francia, di approntare un sistema alternativo e parallelo senza passare fra i tradizionali canali commerciali e senza ricorrere al dollaro, negli scambi con l’Iran.

Il pericoloso braccio di ferro si iscrive in una più vasta logica geopolitica: Usa, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Uniti da una parte, Iran, Russia, Turchia o Hezbollah dall’altra. Una logica che ha già messo a ferro e fuoco la Siria. E che gestita da un presidente ritratto come capriccioso e volubile da più di un membro del suo entourage, rischia di creare una situazione esplosiva. 

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