L'analisi

Se l’Italia corre sola

L’Italia farebbe bene a non liquidare con un’alzata di spalle o con un atto di sfida l’aut-aut della Commissione europea relativo al suo debito pubblico

7 giugno 2019
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Siccome è spesso dalle bocche meno titolate a farlo che ci vengono gli ammonimenti più salutari, farebbe bene l’Italia a non liquidare con un’alzata di spalle o con un atto di sfida l’aut-aut della Commissione europea (che dovrà comunque essere approvato dal Consiglio dei ministri) relativo al suo debito pubblico.

Se dunque è vero che la Commissione è una sorta di malforme creatura, figlia del verticismo dei governi nazionali e dell’ottuso dogmatismo dell’euroburocrazia, non è allestendo una para-realtà innervata di fantasie e retorica nazionalista che si può riscattare una nazione da una presunta condizione di asservimento, o salvarne l’onore. Ma più in là di questo (e non c’era da aspettarsi altro) non è andato il governo grilloleghista.

Una para-realtà che ha fatto dire a Luigi Di Maio che l’aumento del deficit “è colpa del Pd” (fino al giorno prima accusato semmai, e non così a torto, di avere sposato la politica del rigore di bilancio imposta dai cattivi di Bruxelles). O che fa credere a Giuseppe Conte di essere ancora capo di un governo per il quale funge soltanto da foglia di fico. La conferenza stampa convocata per annunciare urbi et orbi che o Lega e 5Stelle si mettono d’accordo o si va a casa, non solo è giunta in ritardo, ma anche in malafede: nemmeno non si sapesse fin dal primo giorno che il solo fragile collante della coalizione era l’ambizione del potere, in ogni caso e ad ogni costo; e che ora, mentre i suoi ultimi giorni paiono avvicinarsi, a tenere insieme la baracca sono il panico prodotto dalla paura di perderlo, per Di Maio, e l’urgenza di Salvini di non far scoprire il proprio bluff. Salvini che, quanto a realtà inventate, sembra farla da padrone: da quelle – emigrazione, sicurezza, oppressione brussellese – che gli vengono servite da un efficientissimo staff della propaganda, a quelle su cui lui stesso ha costruito la propria figura pubblica di “cittadino comune”, e che gli assicurano una popolarità sconcertante (se non ricorrendo alla dubbia categoria di “carattere degli italiani”).

Il fatto è che l’Unione europea, avendo da tempo cessato di essere qualcosa di vicino a ciò che auguravano i “padri fondatori” (e di questo i grilloleghisti dovrebbero solo rallegrarsi, dato che di “quella” Europa sono tra i critici più radicali), è divenuta, nella sua gestione di vertice, un consorzio di governi nel quale l’unità di misura non è l’adesione a una ideale casa comune, ma il peso economico e politico di ciascuna capitale. E quello dell’Italia, per propria scelta, è sempre più irrisorio. Che la legge sia questa lo hanno sperimentato, al di là di tanta retorica, i greci. I prossimi saranno gli italiani. Dalla cui para-realtà che li culla di post in post li strapperanno per primi quei governi che per ispirazione ideologica dovrebbero essere loro affini. Perché sovranismo è la parola mendace che sta per nazionalismo, cioè il noi prima di tutti.

Mentre le industrie, in mano a capitali stranieri, dislocano; e la fusione Fca-Renault fallisce per un veto di fatto imposto dal governo di Parigi, aggrapparsi, come fanno ma non dicono i grilloleghisti, alla constatazione che l’Ue non può permettersi di perdere l’Italia perché il suo disastro economico si abbatterebbe su tutti, indistintamente, è una illusione, oltre che una indegnità.

Non saranno l’ossessione securitaria o la retorica anti-immigrazione a ridare all’Italia il rango a cui ambisce. Né le boutade di Salvini che ieri scriveva di dover “dar da mangiare a 60 milioni di italiani”. Sinora sono gli italiani ad aver mantenuto lui.

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