L'analisi

Il passo falso di Netanyahu

Allora anche i più tronfi tra i politici sulla scena internazionale hanno un punto debole, e soprattutto un “alleato” pronto a colpirli proprio lì

1 giugno 2019
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Allora anche i più tronfi tra i politici sulla scena internazionale hanno un punto debole, e soprattutto un “alleato” pronto a colpirli proprio lì.

Benjamin Netanyahu ha definito Avigdor Lieberman “il serial killer dei governi di destra” israeliani, intendendo i propri, vista la nulla considerazione che ha di quelli altrui. Sta di fatto che a lungo hanno condiviso responsabilità di governo, l’uno come premier, l’altro come ministro degli Esteri e poi della Difesa. Una lunga frequentazione politica che ha retto alle tensioni generate dalle rispettive smodate ambizioni, finché uno dei due, Lieberman, ha deciso che era il momento di far saltare la finzione. Inscenandone un’altra: l’indisponibilità a rinviare oltre l’applicazione della legge che impone il servizio di leva anche agli studenti ultraortodossi, in nome della laicità dello Stato.

C’è la sua carriera politica a testimoniare che di tale principio si è sempre servito come mero argomento di propaganda: ancora in novembre, l’idolo degli immigrati russi si alleò con gli ultraortodossi nelle elezioni per il sindaco di Gerusalemme; e fino a quando fu ministro della Difesa (si dimise nello stesso novembre contrariato dal cessate il fuoco a Gaza concordato da Netanyahu con Hamas) non si spese affatto per fare applicare la legge in questione.

Lieberman, che quanto a cinismo e spregiudicatezza non è secondo a Netanyahu, avrà avuto altre ragioni. Quali, lo sanno solo lui e il premier disarcionato, come ha osservato ‘Ha’aretz’. E in questo senso, la politica israeliana non si distingue poi tanto dalle dinamiche all’opera in altre realtà, business as usual.

Ma la politica israeliana non riguarda soltanto Israele. Il riflesso condizionato che spinge i governi uscenti a lustrare il totem della sicurezza nel corso delle campagne elettorali ha sempre condotto a rinnovati scontri di frontiera per accreditarsi quali garanti del buon vivere della Nazione, a moltiplicare le aggressioni territoriali – sfruttando la fanteria dei coloni più esaltati – spacciate per misure difensive, a millantare familiarità con i potenti della Terra, generosamente comprensivi. Lo stesso riflesso condizionato che spinge il radicalismo arabo a ridare fuoco alla retorica e alle rampe di lancio dei missili, deliberatamente cercando lo scontro che li accrediti come i veri difensori della causa palestinese, e scommettendo su una risposta violenta di Israele che ne confermi la natura satanica.

Va anche detto che non per forza uno schema ben rodato è destinato a funzionare per sempre. Le varianti, in e attorno a quella polveriera solo apparentemente sedata che è la terra condivisa/contesa da israeliani e palestinesi, sono tante, troppe. Lo stesso incondizionato, interessato sostegno della Casa Bianca, anche quella di Donald Trump, potrebbe non sfuggire a un calcolo dei costi e dei benefici (statunitensi) e venirne condizionato. Analisti israeliani hanno infatti già avvertito che, dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale e dell’annessione del Golan, come dote per le scorse elezioni, non si può dare per scontato il riconoscimento di una eventuale annessione della Cisgiordania (una delle promesse di Netanyahu della scorsa campagna elettorale, temporaneamente vanificata dall’inatteso scioglimento della Knesset). Pur fortemente ideologizzati, gli Stati Uniti di Trump sono sì amici di Israele, ma innanzitutto di sé stessi.

Chi non ne ha, di amici, se non poco raccomandabili, sono i palestinesi. Ma nelle campagne elettorali israeliane sono da tempo niente più di un elemento di disturbo, non un interrogativo sul proprio futuro.

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