L'analisi

Il Venezuela in mano altrui

Nicolas Maduro è indifendibile; Juan Guaidó lo è troppo

Keystone
3 maggio 2019
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Nicolas Maduro è indifendibile; Juan Guaidó lo è troppo. Se si riduce la crisi venezuelana allo scontro tra due personalità (la prima inadeguata al ruolo di erede di un già controverso Hugo Chavez; la seconda con tutti i tratti della marionetta in mano altrui) se ne comprenderà meno di quel poco che consentono di capire le fonti di cui possiamo disporre. E che, in larghissima parte, sono propaganda.

Conviene dunque allontanare lo sguardo e provare a collocare la vicenda venezuelana su uno sfondo più esteso, quello di uno scontro di potenze, pur privato del contenuto ideologico come s’intendeva decenni fa, e del rischio (molto enfatizzato) di una guerra “definitiva”. Ciò che lo differenzia dalla Guerra Fredda della seconda metà del Novecento. Si può semmai dire che il retaggio principale di quel conflitto a distanza – la pretesa vittoria del modello politico-economico-militare degli Stati Uniti – è logorato da anni, ma è lungi dall’essere esaurito.

E anche il caso venezuelano ne è una conferma. L’ingerenza statunitense non è soltanto una riproposta della “dottrina Monroe” che indicava nel Sud America il “cortile di casa” degli Usa: in realtà sembra un tentativo estremo di riprendere un ruolo di dominio che sta sfuggendo di mano. Spogliata della finzione ideologica (la “democrazia”), alla pressione statunitense resta il cinismo come norma-guida. Si pensi all’incondizionato sostegno al regime di apartheid che Netanyahu sta introducendo in Israele; o, più vicino a ciò di cui stiamo parlando, alle sanzioni: Dipartimento di Stato e Casa Bianca ne hanno sostenuto la legittimità proprio perché colpiscono direttamente le popolazioni prima dei regimi contro i quali sono nominalmente dirette, dall’Iran al Venezuela. L’iperinflazione e la riduzione dei cittadini venezuelani alla fame sono un’arma impropria in mano a Washington, quali che siano le (gravissime) colpe di Maduro.

Ma proprio perché ricondotto a un mero confronto di muscoli, il disegno dell’amministrazione Trump (pur se parlare di “disegno” è improprio, trattandosi di Trump) deve affrontare forze che “naturalmente” da concorrenti diventano ostili. Lasciando da parte la Cina (che seppe già con Mao, dunque in piena epoca comunista, evitare lo scontro con Washington) è evidentemente la Russia a competere per un terreno che vuole riconquistare. Le affermazioni del ministro degli Esteri Serghei Lavrov sulle “gravi conseguenze” nel caso di un’ingerenza statunitense nelle vicende venezuelane possono forse essere liquidate come propaganda (è chiaro che l’ingerenza c’è e da tempo), ma se si associano a come la Russia si è mossa nelle situazioni di crisi più recenti e gravi – dalla Siria a (ultima in ordine di tempo) la Corea – rappresentano bene lo scenario che si va delineando. Una potenza declinante (e quanto più Trump lo nega, tanto più ne è la conferma) e una decisa a vendicare il declassamento storico seguito all’Ottantanove, impegnate a ridisegnare aree di influenza in un processo che inevitabilmente le mette l’una contro l’altra. Nella necessità entrambe di poter vantare successi più simbolici che strategici. E con il (temporaneo?) paradosso che ai loro vertici si trovano figure che se non altro condividono una interpretazione autoritaria, egocratica del potere.

In questo quadro, tutto ciò che Mosca sembra potere offrire a Maduro è qualche militare in più, qualche tonnellata di aiuti medici e alimentari; ed eventualmente una via di fuga più o meno gloriosa. Viceversa, Guaidó dagli Usa può aspettarsi tutto fuorché la garanzia di essere sostenuto oltre il periodo che servirà loro. In questo senso, il Venezuela è affare d’altri. E peggio per i venezuelani.

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