L'analisi

Gli Usa, le primarie e i Democratici dopo Trump

Chi è l’uomo giusto per cancellare dalla lavagna il nome del presidente? Forse serve una scelta radicale

Keystone
2 maggio 2019
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The times, they’re a-changin’. Ma sarà vero? E come? In mancanza di un vero favorito, le primarie dei Democratici americani promettono di dare una risposta a questo interrogativo. Di stabilire cioè se le presidenziali che verranno segneranno davvero un cambio d’epoca. Non si tratta solo di trovare un modo per cancellare dalla lavagna i quattro anni di Trump. Si tratta soprattutto di decidere con cosa sostituirlo, ammesso naturalmente che gli Americani lo vogliano.

A trasformare le dinamiche della politica Usa – o quantomeno a incarnare quella trasformazione – è stato d’altronde lo stesso Trump. Lo si è ripetuto fino alla nausea: con lui è tornato ago della bilancia l’americano bianco della classe mediobassa, marginalizzato dalle trasformazioni economiche, sempre meno rilevante dal punto di vista demografico, ma comunque decisivo per la conta dei voti negli Stati depressi del Midwest. È sempre ai margini, d’altronde, che si vincono le elezioni.

Tanto che proprio su quell’elettorato punta il neocandidato Joe Biden: non a caso ha iniziato la sua campagna da Pittsburgh, Pennsylvania. Perché sì, l’ex vicepresidente punta moltissimo sull’eredità del rimpianto Barack Obama; ma crede anche che per vincere occorra riprendersi la fiducia dell’America meno ‘cool’, che ancora sconta la crisi del 2008. A quella si rivolge con un messaggio che attacca Wall Street e difende i sindacati; e guarda già alle presidenziali più che alle primarie, come alternativa a Trump per i piccoloborghesi traditi dalle guerre commerciali e dalle riforme fiscali del Donald.

Potrebbe essere troppo presto, però. Con tanti anni sulle spalle e la fama d’uomo delle istituzioni più che del cambiamento, Biden rischia di fare la stessa fine che dall’altra parte fece Jeb Bush quattro anni fa. Il malessere che ha portato alla nemesi trumpiana potrebbe richiedere una cura più radicale, e non è detto che a decidere debba essere per forza il ‘margine bianco’, invece di quelle minoranze altrettanto isolate (afroamericani, ispanici) i cui numeri sono in crescita costante. Tanto più che per una volta anche i finanziatori, grandi e piccoli, si direbbero più combattuti che mai.

Il mosaico

Vista così, la ventina di candidati alternativi al (fu?) moderato ‘zio Joe’ potrebbe risultare più credibile. A guardarli da lontano, sembrano rappresentare quasi tutte le tessere nel mosaico – anagrafico ed etnico – della società americana. Fra i 70enni bianchi c’è anche il vecchio radicale del Nordest che non molla mai, Bernie Sanders, che certi discorsi ripresi da Biden li fa da decenni; e poi Elizabeth Warren, un’altra che picchia duro sulle disuguaglianze sociali e sulle malefatte della finanza, ma rischia di scontare l’immagine radical-chic. A metà della scala generazionale si colloca la senatrice californiana Kamala Harris, madre tamil e padre giamaicano, una progressista molto brava a emozionare, forse meno a offrire una visione politica coerente su temi quali l’immigrazione e la sicurezza. Di una decina d’anni più giovane è il ‘supercool’ Beto O’Rourke, che in Texas stava per sconfiggere il potentissimo Ted Cruz al midterm, e per questo ha fatto sperare nell’Obama bianco. Ma c’è anche Pete Buttigieg, 37enne sindaco di South Bend (Indiana), un altro indomito progressista che ha stupito i media rivendicando esplicitamente la sua omosessualità. E poi tanti altri.

Più forte, ragazzi

Tutti nomi che promettono un approccio più radicale agli acciacchi del Paese, risposte più decise su temi quali il clima, i migranti, la tutela dei lavoratori ai tempi della ‘sharing economy’ (nome fighetto per definire i nuovi lavori a cottimo imposti da realtà quali Uber e Amazon). Il problema, per ciascuno di loro, sarà trascendere i limiti del pubblico che vi si identifica in modo più immediato – per ragioni etniche o emotive – e parlare anche agli altri, dimostrando di non essere solo un puntino isolato in quell’enorme tela di Seurat che è l’America.

L’altra preoccupazione è che candidati troppo ‘di sinistra’ possano spaventare l’elettorato a novembre 2020, quando a votare non saranno solo i militanti Dem. Preoccupazione legittima, ma che è meglio non esagerare. Come insegna il geniale linguista (ma non solo) George Lakoff, i moderati non esistono: esistono solo persone che hanno opinioni di destra su alcuni temi e di sinistra su altri. Chi si profila in maniera convincente può consolidare il suo zoccolo duro e nel frattempo guadagnare una parte di questo elettorato ‘biconcettuale’; specie in un momento in cui la comunicazione social impone l’uso di tempere vivaci, con buona pace di chi rimpiange i vecchi acquerelli. È quello che ha saputo fare Trump e non Hillary, tra l’altro. Ed è una lezione che sarebbe meglio imparassero tutti, non solo i populisti. E non solo negli Usa.

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