L'analisi

Disputa grottesca tra Italia e Francia

L’incontro con il gilet giallo che vuole rovesciare Macron via guerra civile, come reinterpretazione tragicamente grottesca della “pugnalata alla schiena”

9 febbraio 2019
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Si può ragionare sulla spocchia anti-italiana dei francesi (e anche stigmatizzarla); o le si possono fornire nuovi materiali per rafforzarne motivazioni e pregiudizi. La prima ipotesi richiede intelligenza politica e onestà intellettuale; per la seconda bastano (e ce n’è per i prossimi anni) pochi mesi di governo grilloleghista.

Il richiamo dell’ambasciatore a Roma deciso da Parigi, al netto del sovraccarico di propaganda cercato da Emmanuel Macron, è dunque molto più grave del suo clamore episodico, perché nelle relazioni tra Stati contano sì i rapporti di forza, ma altrettanto importanti sono quei sedimenti di pregiudizio, fiducia, diffidenza, sentire comune che agiscono sottotraccia, dagli scambi di informazioni di sicurezza, alla competizione (o cooperazione) industriale, alla composizione di interessi (e di retaggi storici) anche concorrenziali in politica estera.

Da questo punto di vista, le tensioni degli ultimi mesi tra Italia e Francia sono solo l’espressione più desolante e cialtronesca di un degrado delle relazioni che data almeno dagli anni Berlusconi. Senza che ciò giustifichi tuttavia, oggi, l’irresponsabilità di Salvini e Di Maio, di chi scrive loro le battute e di chi le applaude.

È vero cioè che l’atteggiamento del presidente Macron nei confronti del governo italiano rivela da un lato un insopprimibile, stucchevole sentimento di superiorità, miscelato a cinismo e alla stringente necessità di vendere in patria l’immagine di un presidente forte, nel momento in cui gli indici di gradimento precipitano. Tutto vero: dallo sdegno morale per la chiusura dei porti italiani alle navi dei migranti, ai respingimenti (francesi) di altri migranti a Ventimiglia o, nel pieno di bufere di neve, al Monginevro, agli sconfinamenti della gendarmerie in territorio italiano. Dagli allarmi sulla diffusione della lebbra populista in europa agli sbaciucchiamenti con il populista-in-chief di Washington. Per limitarci a questo.

Il problema, tuttavia, è che invece di un interlocutore all’altezza di un confronto pur ruvido, invece della regia consapevole di una politica estera pur mutata negli orientamenti, assertiva, rivendicativa, Parigi si è trovata da un lato impunemente libera di agire, dall’altro a dover reagire a sconsiderate, spiazzanti, profondamente ignoranti manifestazioni di un caos politico e istituzionale con pochi precedenti. Insulti via Twitter, provocazioni, elaborazioni concettuali da comizio sul balcone di Piazza Venezia. L’incontro con il gilet giallo che vuole rovesciare Macron via guerra civile, come reinterpretazione tragicamente grottesca della “pugnalata alla schiena” inferta da Mussolini a una Francia che reputava ormai spacciata.

Ma il problema è che non si tratta solo di Parigi e delle relazioni che Roma vi intrattiene. Il problema è la deriva di un Paese che conta sempre meno per avere peso internazionale e trovare ascolto, e che tuttavia conta ancora troppo per non venire disputato tra chi si contende i nuovi spazi d’influenza globale. Acefala, anomica – in una parola: casinista – la politica estera italiana sta proiettando il Paese nel recinto degli intrattabili, buoni da spendere come pedine di strategie altrui, ma sui quali non fare conto. Anche per questo, gli osservatori più attenti invitano a non liquidare come rispondenti a mere dinamiche preelettorali domestiche i sussulti che ci scorrono sotto gli occhi. No, l’insipienza e la conseguente irrilevanza non sono più episodiche ma strutturali. Sabbie mobili da cui una volta entrati è ben difficile uscire.

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