Per i curdi non ci sono praticamente tregue. Per loro le disgrazie sono perenni. Con loro la storia è stata più che matrigna, è stata crudele.
Dice un antico adagio che in Medio Oriente la violenza è sempre operante, semmai concede qualche tregua, spostandosi a turno da una comunità all’altra. L’unica comunità che si può escludere da questa massima è rappresentata dai curdi. Per loro non ci sono praticamente tregue. Per loro le disgrazie sono perenni. In effetti, dagli accordi Sykes-Picot (un secolo fa, coi Trattati di Sèvres, quando inglesi e francesi ridisegnarono a tavolino sulle macerie dell’impero ottomano, a loro comodo e vantaggio, i confini di gran parte della regione) ad oggi con i curdi la Storia è stata più che matrigna. È stata crudele. Certo, c’è il Kurdistan della piena autonomia del Nord Iraq, conquistata con le armi, ma il cui futuro promette l’ennesimo tragico rovescio una volta che a Baghdad dovesse consolidarsi un potere centrale (prima o poi accadrà); e c’è il Kurdistan del Nord siriano, dove i combattenti dell’Ypg si sono ritagliati un territorio autogestito, pagandolo a caro prezzo, con feroce guerra contro lo Stato Islamico, costata loro migliaia di morti.
Lotta contro l’Isis che beffardamente Donald Trump ritiene erroneamente “già vinta” e che senza questo contributo sarebbe risultata comunque assai più lunga, sanguinosa e incerta. E con quale moneta i curdi vengono ripagati? Col tradimento. Con l’abbandono. Perché questo significa in sostanza il ritiro del piccolo contingente americano deciso dal capo della Casa Bianca. Piccolo ma sufficiente, sul piano politico-simbolico, a contenere gli appetiti di tutti gli altri protagonisti della crisi. Per i curdi, la solita storia. Ma stavolta c’è un motivo in più per spiegare la minaccia di annientamento sull’Unità di Protezione Popolare (questo il significato di Ypg): si tratta infatti di un esperimento democratico forgiato nella lotta e che vede compartecipi curdi ma anche arabi, assiri, circassi, più altre minoranze. Un modello unico, nell’area mediorientale, di convivenza, di giustizia sociale, di dimostrata uguaglianza delle donne, e di governo laico. Progetto ideologicamente poco gradito dalle parti di Washington, e del tutto osteggiato dagli altri interessati: la Siria del boia Bashar al-Assad (che mira alla ricomposizione territoriale della nazione), l’Iran (si allontana da quel fronte il suo principale nemico), la Russia (ora sente di avere le mani libere come ‘potenza indispensabile’), e soprattutto la Turchia di Erdogan: deciso a “regolare i conti” anche con i curdi d’oltreconfine, ‘manu militari’ se occorre, per azzerare qualsiasi progetto irredentista in grado di contaminare la già repressa minoranza curda di Turchia.
Al dittatoriale neo-sultano del Bosforo, Trump concede dunque un’altra chance di riagganciarsi alla Nato dopo la sbandata pro-russa e pro-iraniana. Disegno contestato dai suoi generali, come dimostrano le dimissioni del suo ministro della Difesa Jim Mattis: uno degli ultimi “adulti di guardia” alla Casa Bianca, come li ha definiti il ‘New York Times’, ancora in grado di “separare l’America dal caos”.