L'analisi

Margaret Thatcher e i gilet gialli

Quando Margaret Thatcher affermò che “la società non esiste”, sapeva a che cosa mirava, ma probabilmente neppure lei arrivò a immaginare che cosa ne avrebbe preso il posto.

5 dicembre 2018
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Quando Margaret Thatcher affermò che “la società non esiste”, sapeva a che cosa mirava, ma probabilmente neppure lei arrivò a immaginare che cosa ne avrebbe preso il posto. Trent’anni di neoliberismo hanno prodotto una somma confusa di individui spaesati, perlopiù senza relazioni che non siano quelle surrogate dai social, inclini più alla rabbia che a un reciproco riconoscimento, men che meno alla solidarietà.

È anche su questo sfondo che va letta la protesta francese dei gilet gialli. Un movimento informe; acefalo (i suoi presunti portavoce, gente da scie chimiche, cercano ora di nascondersi dalle minacce dei “geni” usciti dalla loro stessa lampada). Un movimento fuori controllo, a conferma che nulla oggi sembra potersi strutturare, e ciò che vi riesce viene inteso come parte del “sistema”; di qui il rifiuto di vicinanza con i partiti, sia pure d’opposizione. Effetto anche di una comunicazione e di una post-cittadinanza che rifiutano ogni forma di mediazione. Da protesta contro il rincaro dei carburanti, infatti, il movimento si è trasformato in un’onda di rancore che reclama le dimissioni del governo e del presidente Macron, la consegna del potere al “popolo”. Con maggiore energia distruttrice e maggiore visibilità di quella che ebbero in Italia i cosiddetti “forconi”, ma con analoga confusa rabbia ad alimentarne le gesta. I secondi finirono a ingrossare le fila della destra radicale o un grillismo ancora agli albori; questi si vedrà.

Di fatto, sociologi e giornalisti faticano a inquadrare ciò che accade, stentando ad andare più in là della constatazione che le fratture della società la scompongono ormai non più soltanto lungo linee di classe, ma anche di geografia (città versus campagna), oltre che di confessione e di provenienza culturale. Se queste ultime vengono solitamente indicate come origini delle rivolte che periodicamente incendiano le banlieues, in questo caso, il “regolamento di conti” avviene tra “bianchi”, e spiazza anche gli imprenditori del risentimento solitamente pronti a indicare nello straniero la causa di tutti i mali.

Per Emmanuel Macron il ritorno sulla Terra non poteva essere più traumatico. Il presidente, espressione esemplare di quella scuola delle élite di cui la Francia si fregia per guardare dall’alto in basso i politici d’altrove, da un lato misura nel più ruvido dei modi l’inadeguatezza della sua politica; dall’altro subisce il contrappasso della sua scelta di proporsi elettoralmente come alternativa a un ceto politico che lui, prometteva, avrebbe liquidato. Cosicché oggi si trova senza sponde a cui appoggiarsi: dietro di sé non ha un partito (La France en marche non è niente altro che una lista elettorale), e sconta il tacito desiderio degli altri partiti di vederlo ridimensionato. Se poi un suo fallimento sia una prospettiva augurabile è un altro discorso. Pensiamo solo a che cosa produrrebbe sullo scenario europeo, combinato all’evidente indebolimento di Angela Merkel, di qui a qualche mese, quando si voterà per l’Europarlamento.

Perché alla domanda sulla natura del movimento dei gilet gialli, in un’Europa sempre più “nera”, si aggiunge quella sulla scomparsa della parte politica a cui un tempo associavamo la tutela delle classi più deboli. In altre parole: se il movimento francese è un sottoprodotto dell’ideologia dominante e del sistema che vi si fonda, allora bisogna anche chiedersi chi era lo “stupido” quando Bill Clinton si impose affermando “it’s the economy, stupid”. La sinistra che ci ha creduto è parsa dimenticare che la società è fatta d’altro e necessita di cure. E oggi vede bruciare i propri resti con i copertoni in fiamme sugli Champs Elysées senza sapere che cosa dire, cosa fare.

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