L'analisi

Parigi brucia

Le manifestazioni dei ‘gilet jaunes’ degenerano e si sono trasformate in vera e propria guerriglia urbana. Il presidente Macron scende nei consensi

Momenti di tensione a Parigi (Keystone)
3 dicembre 2018
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Scene di rara violenza anche per un Paese che ha impresse le sommosse e le manifestazioni nel proprio Dna. Interi quartieri di Digione, Marsiglia, Bordeaux, Toulouse ma soprattutto il cuore simbolico e turistico della capitale, les Champs-Elysées e la Place de l’Etoile, trasformati in un teatro di guerriglia urbana. Incendi, saccheggi, devastazioni con tanto di picconi, martelli e asce. Un numero di manifestanti certamente limitato (75mila in tutta la Francia) ma con un effetto massimo, mediatico e politico, tale da creare scompiglio e un senso di panico ai vertici dello Stato. Il presidente, impegnato nel G20 argentino (vertice dell’ignominia di cui si ricorderà soprattutto il batti cinque tra Putin e l’impresentabile saudita Mohammad Bin Salman), promette fermezza e coerenza: non cambierà direzione e i ‘casseurs (un pot-pourri di estremisti di destra, di sinistra e bande di giovani teppisti giunte dalle banlieue) dovranno fare i conti con una giustizia inflessibile.

L’economia comincia a subire gli effetti di 15 giorni di blocchi, picchetti e disordini, alcune succursali dell’industria automobilistica hanno lasciato a casa gli operai, il settore turistico parigino registra una valanga di annullamenti. Emmanuel Macron cambia tono: finiti i “je vous ai compris” di degolliana memoria, l’ora è alla fermezza e all’azione. Ma quale? L’ipotesi dello stato d’emergenza non è più remota. Fosse solo questione di ordine pubblico, la questione gilet gialli sarebbe probabilmente risolta con un colpo di spugna. Così non è. A questo punto del mandato presidenziale l’opinione pubblica tende a vedere nell’inquilino dell’Eliseo l’uomo da abbattere. Macron non fa eccezione. La maggioranza dei francesi è dalla parte dei ‘gilet jaunes’. Ma non solo per una mai sopita propensione transalpina alle rivoluzioni. La ribellione della “France d’en bas” contro la tassa carburante, che può certamente scioccare perché esprime anche la tradizionale insensibilità della popolazione per l’ecologia, traduce il sentimento di abbandono (in parte reale, in parte strumentalizzato) delle aree rurali e periurbane. Non è certamente un caso che la popolarità dei giubbetti gialli salga più ci si allontana da Parigi e sia inversamente proporzionale a reddito e livello educativo.

La “fracture sociale”, stando all’economista Thomas Piketty, è uno degli effetti del processo di trasferimento di ricchezza e competenze dal pubblico al privato iniziato negli anni 80 del secolo scorso, registrato in molti Paesi occidentali. È comunque certamente anche effetto delle mancate riforme di un Paese che ritiene di poter vivere continuamente di rendita post-coloniale. La globalizzazione mette in competizione realtà mondiali, apre vasi comunicanti, e alla crisi delle classi medie e popolari europee fa riscontro il rafforzamento delle stesse classi nei Paesi emergenti. La logica è impietosa. Il welfare, la settimana lavorativa di 35 ore, e ora la transizione ecologica, hanno un prezzo, che viene pagato con forti prelevamenti fiscali. Il “ras le bol” (l’esasperazione) è spesso comprensibile ma il più delle volte sordo di fronte all’impietosa logica del finanziamento della socialità. La crisi della sinistra (il Partito comunista controllava 145 città di più di 30mila abitanti nel 1977, ora è sotto il 3%) e dei sindacati (la Cgt nonostante il suo massimalismo è alla canna del gas) ha tolto al governo gli intermediari indispensabili per spegnere l’incendio. Creando un terreno fertile per il caos e la strumentalizzazione politica.

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