L'analisi

Bush Sr., il volto gentile della deriva conservatrice

George H. W. Bush, il 41.mo presidente degli Stati Uniti morto venerdì scorso a 94 anni, ha incarnato cinquant'anni di metamorfosi nazionale

Bush senior tra i soldati Usa vittoriosi in Iraq (Keystone)
2 dicembre 2018
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“Uno che per farsi una pisciata esce dalla doccia”. George H.W. Bush – morto venerdì a 94 anni – era visto così dai colleghi texani. Lui in Texas c’era sceso nel 1948, fresco di laurea a Yale, un “repubblicano con le unghie pulite”. A 40 anni era già diventato un milionario col petrolio. La sua storia è anche quella di una metamorfosi nazionale. 

Il pioniere garbato

Quando Bush arriva al Sud, da quelle parti si vota solo democratico: sono i Dixiecrats a garantire la segregazione razziale, mentre i Repubblicani sono ancora visti come i lacché di Lincoln, i ‘carpetbaggers’ venuti dal nord per rubare ricchezza e libertà (e abolire la schiavitù). È Lyndon Johnson a giocarsi il sud, firmando nel 1964 il Civil Rights Act per la desegregazione razziale. Nel frattempo la vecchia Confederacy diventa sempre più importante per il paese, il petrolio texano guida l’economia più delle auto di Detroit nel quale va a finire. Bush si trova nel posto giusto al momento giusto.

A paragonarlo con Trump, par di tornare a un mondo più educato e gentile, un mondo nel quale si stringe la mano all’avversario e si beve il tè alzando il mignolo. Ma è meglio non farsi offuscare dalla nostalgia. Nella sua prima corsa al Senato, Bush non si fa tanti scrupoli a schierarsi contro i diritti civili e insieme a Barry Goldwater, il primo che dà al partito una svolta radicale e iperconservatrice. Sotto Nixon e Ford si fa due giri sulla giostra diplomatica, all’Onu e in Cina, e dirige la Cia; ruoli nei quali non fa né rivoluzioni né grandi danni.

Nel 1980 sfida Ronald Reagan alle primarie, proponendosi come alternativa moderata. Sconfitto, si converte al reaganismo pur di diventare vicepresidente. Aveva definito “voodoo economics” la promessa di tagliar tasse aumentando al contempo la spesa militare, ora diventa un evangelista del ‘supply-side’. Come tutto il Grand Old Party, salta dal “siamo tutti keynesiani” di Nixon a una guerra tutta Bibbia e Winchester contro l’invadenza statale. In America i vicepresidenti contano poco: il ruolo defilato gli permette di schivare le pillacchere di fango dello scandalo Iran-Contra (armi vendute all’Iran in cambio del rilascio di ostaggi americani; proventi della vendita devoluti illegalmente alla guerriglia anticomunista in Nicaragua). 

Fra Mosca e Baghdad

L’elezione a presidente numero 41 arriva nel 1988, dopo quella che all’epoca è la campagna elettorale più brutta di sempre: il suo manager Lee Atwater gioca molto sulle allusioni razziali e la criminalizzazione degli afroamericani. Una cosa molto lontana dal profilo moderato di Bush Senior, che comunque vince.

Lo aspettano il crollo del muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica, e qui emerge il suo punto di forza: la diplomazia. Segue i passi del predecessore nel dialogo con Michail Gorbacëv per il disarmo, lascia all’estro di Kohl la riunificazione tedesca (comprendendo prima di Parigi e Londra la sua importanza e legittimità). All’arrivo di Eltsin, affida la transizione russa alle ricettine neoliberiste del Washington Consensus (i risultati disastrosi porteranno il paese a cercare un nuovo uomo forte). Forse a Bush manca “quella cosa della visione, le chiacchiere davanti al camino per spiegare le cose come faceva Roosevelt”: lo ammette lui stesso. Ma quasi tutti pensano di stare alla fine della storia, e quindi va bene anche così.

Il momento da maschio alfa – spallate al regime panamense a parte – gli arriva con il Kuwait. Staterello col 10% del petrolio mondiale, che il dittatore iracheno Saddam Hussein pensa bene di invadere nell’agosto del 1990. Gli Usa hanno sostenuto l’Iraq durante gli otto anni di guerra contro l’Iran, ma stavolta Bush decide di intervenire. Con un mandato dell’Onu e un voto al senato passato per appena cinque voti - quasi tutti i Dem sono contro - manda i suoi aerei a fermare Saddam. Ci riesce in 100 ore secche. Per l’America è una vittoria che guarisce almeno in parte le ferite del Vietnam. Un colpo da maestro che farà di Dick Cheney, segretario della Difesa, il Metternich dei repubblicani. Ma anche un 'mordi e fuggi' che lascia sole le minoranze curda e sciita, fomentate alla ribellione e poi abbandonate alla scure del boia. 

L’economia, stupido

La guerra che continua sul fronte interno è invece quella alla droga: una scusa per sbattere dentro migliaia di afroamericani e altre minoranze, senza risolvere in alcun modo i problemi di dipendenza. Poi ci sono le grazie concesse per chiudere l’Iran-Contra (e proteggere così la propria posizione). Ma ci sono anche la legislazione per i diritti dei disabili e i primi sforzi in difesa dell’ambiente.

La fine di Bush arriva nel 1992, ma non per una guerra. Una sola volta in vita sua il vecchio repubblicano da country club decide di fare lo sbruffone, e dichiara al paese: “leggete le mie labbra: nessuna nuova tassa”. Non l’avesse mai detto. Una crisi nel settore dei prestiti si innesta sul problema del deficit creato da Reagan (quando Bush si lamentava della voodoo economics non aveva tutti i torti). Siccome l’economia ha i suoi tempi, è lui a pagare le conseguenze della recessione innescata dal predecessore: è quello che gli economisti appassionati di football americano chiamano ‘hospital pass’, il passaggio in cui se prendi la palla finisci all’ospedale. Di fronte al congresso a maggioranza Dem, Bush deve alzare le tasse. Il resto lo fanno una difficile gara col populista Pat Buchanan durante le primarie, i voti rubatigli dal candidato indipendente Ross Perot e soprattutto il carismatico Bill Clinton, che lo liquida con una battuta: “It’s the economy, stupid”.

Padri e figli

Fine della prima parte. La seconda, dopo i pop corn e le scappatelle in bagno dell’era Clinton, vede il figlio George ‘Dubya’ al posto del padre. Accanto a lui c’è ancora Dick Cheney, a Baghdad rimane Saddam. Il padre aveva preferito lasciarlo al suo posto per non impantanarsi nello state building. Il figlio, dopo gli attacchi dell’11 settembre, decide di cambiare regime. È un secondo Vietnam. La tentazione è quella di scomodare Freud e parlare di destino edipico, ma psicanalizzare la storia è pericoloso.

Resta invece da notare la continuità nella deriva a destra dei Repubblicani. Una continuità che ‘41’, pur con tutte le sue buone maniere, non fece nulla per spezzare. Il razzismo gridato dell’era Trump è anche la conseguenza di quello sussurrato dell’era Reagan-Bush, le rotaie ideologiche restano le stesse. Intanto l’altro figlio di Bush Senior, Jeb, è stato sconfitto alle primarie da Trump: i demoni liberati da cinquant’anni di ‘Southification’ non obbediscono più neppure ai loro stregoni.

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