L'analisi

Bin Salman, l'amico indifendibile di Trump

Sempre più pressanti le accuse al regime saudita per la scomparsa del giornalista Khashoggi. La Casa Bianca cerca di salvare l'alleanza (e la faccia)

il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman - Keystone
17 ottobre 2018
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Panico. Situazione estrema e indifendibile. Si cerca una via d’uscita. E allora ecco che l’inviato di Trump Mike Pompeo cerca di escogitare una risposta concordata. Quale? Forse l’ammissione da parte di Riad che sì, il dissidente è stato ucciso, ma all’insaputa del regime. Quello violento di Mohammed bin Salman, l’amico saudita, che ora ha assunto le sembianze di un mostro. Mbs, come è comunemente chiamato il principe ereditario, avrebbe ordinato l’eliminazione, in una scena degna dei più truculenti film dell’orrore, di un giornalista dissidente, editorialista del ‘Washington Post’. Jamal Khashoggi, stando alla ricostruzione dei servizi di sicurezza turchi, è stato torturato, ucciso, il corpo smembrato, forse con una motosega, all’interno del consolato saudita di Istanbul. Il crimine sarebbe stato commesso da un commando di 15 agenti giunti appositamente da Riad. Entrato nel consolato il 2 ottobre per ottenere documenti in vista del suo matrimonio, il giornalista non ne è mai uscito vivo, come attestano i diversi video delle telecamere di sicurezza. Troppo anche per gli Usa che di Mbs avevano fatto il perno della loro politica mediorientale, anti-iraniana, anti-siriana e, tramite il genero di Trump Jared Kushner, filoisraeliana.

Il 33enne principe ereditario, pupillo di Washington, dell’industria degli armamenti e della grande finanza si era già fatto notare per la brutalità con la quale aveva gestito il potere consegnatogli nel 2015 dal padre, re Salman. Esecuzioni sommarie, arresti arbitrari fino allo spettacolare sequestro di centinaia di ricchi sauditi all’Hotel Ritz-Carlton della capitale, al termine della ‘Future Investment Initiative’ (Fii) svoltasi nell’ottobre dello scorso anno: rilasciati dopo aver pagato miliardi di dollari. Sequestrato pure qualche giorno più tardi il premier libanese Saad Hariri, che in una delle più rocambolesche vicende diplomatiche della storia contemporanea dovette annunciare le proprie dimissioni prima di ricredersi una volta rientrato in patria. Il quotidiano ‘The Guardian’ ricostruisce anche la scomparsa, in cinque mesi, di tre principi, di cui due saliti su jet privati a destinazione di Roma e Il Cairo e dirottati sulla capitale saudita. Cade così la maschera del principe riformatore, quello che aveva concesso alle donne il diritto di mettersi al volante, il nemico della polizia religiosa.

Fra qualche giorno si terrà la seconda edizione dell’opulenta Fii, battezzata la ‘Davos in the desert’. Piovono le defezioni: grandi investitori come Uber, il magnate Richard Branson, i grandi gruppi editoriali (salvo Fox) e forse anche Steven Mnuchin, il segretario al Tesoro Usa, non ci andranno. Mbs ha perso la faccia, appare ormai indifendibile. Ma Donald Trump, seppur “deluso e arrabbiato” sembra voler salvare l’amico, quello a cui ha riservato la sua prima missione diplomatica. I sauditi sono tra i principali investitori nella Silicon Valley, le industrie belliche Usa hanno ottenuto commesse per 110 miliardi, tutta la politica anti-iraniana dell’attuale amministrazione è basata sull’inossidabile amicizia con la monarchia petrolifera.

L’inchiesta degli inquirenti turchi, ritardata fino all’ultimo dai sauditi, rischia di essere tecnicamente improduttiva. Eppure la dinamica appare chiara. Riad certamente non si aspettava un tale clamore planetario. Washington è nell’imbarazzo: in gioco per gli Usa i miliardi, ma anche la credibilità.

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