L'analisi

La rivoluzione di Trump

Dopo aver preso a schiaffi i partner del G7, Donald Trump si preannuncia carico della stessa verve al vertice dell’Alleanza Atlantica, domani a Bruxelles

10 luglio 2018
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La prossima sarà la Nato. Dopo aver preso a schiaffi i partner del G7, irrisi nella vacuità magniloquente dei loro annuali “appuntamenti con la Storia”, Donald Trump si preannuncia carico della stessa verve al vertice dell’Alleanza Atlantica, domani a Bruxelles. Prima ancora di arrivarci, il presidente statunitense si è fatto precedere da attacchi fuori misura agli “alleati” per il ritardo con cui stanno adeguando la propria spesa militare agli impegni presi in sede Nato, dando addosso in modo particolare ad Angela Merkel. Non a caso: avendo individuato nella Germania la residua forza capace di tenere assieme una smarrita Unione europea, Trump sa bene che è quello il bersaglio da colpire per mandare tutto all’aria. Passando anche attraverso la Nato, sì.

La rivoluzione reazionaria scatenata dall’uomo che vuole rifare grande l’America, destinata a segnare i nostri anni, si compie infatti non solo attraverso gesti di rottura di impegni assunti con e nei confronti di tutto il mondo, come il Trattato di Parigi per scongiurare il disastro ambientale; o nei confronti di potenze concorrenti, reali o ipotetiche, ancora avversarie o già nemiche, quali la Cina o l’Iran; o nei confronti di organismi ritenuti d’ostacolo alla rinnovata politica di potenza americana, dall’Unesco al Consiglio Onu per i diritti umani.

No, la “distruzione creativa” di Trump prende di mira anche, se non soprattutto, gli europei alleati storici; i Paesi al di qua dell’Atlantico che per genuina condivisione di una immagine del mondo o accomodandosi alle ragioni del più forte (coincidendo, le due, con il Paese senza il quale la liberazione dai fascismi sarebbe stata ben altra storia) hanno assicurato l’egemonia statunitense.

Trump lo ha dimostrato in maniera inequivocabile nel caso dei dazi, e si prepara a farlo sul terreno dell’alleanza militare. Quella, cioè, che ha plasmato, determinato, le relazioni internazionali in questa parte di mondo nel dopoguerra, sopravvivendo alla scomparsa del nemico storico, il Patto di Varsavia, e impedendo di fatto la costituzione di una forza di difesa comune autenticamente europea.

Questo per dire che non è della Nato che bisogna augurarsi la sopravvivenza (né sia gran cosa difendere una spesa militare in aumento, parallelamente alla diminuzione di quella sociale), ma che occorre intendere le cannonate che Trump vi scarica addosso per ciò che sono: una battaglia nella guerra per l’affermazione di un unilateralismo aggressivo, che non sa che fare di soft power e diplomazia da donnette.

In questo modo, Trump sintetizza e fa deflagrare le contraddizioni di un sistema consolidato da decenni, appropriandosi di istanze e critiche anche radicali, che furono patrimonio e programma dei movimenti alternativi e di opposizione in Europa.

La “grande confusione sotto il cielo”, che tanto piaceva a Mao Zedong (o a Confucio, a seconda delle attribuzioni) ha in lui il nuovo e “migliore” interprete. Dunque: vai a capire, da un lato, e stai a vedere se il suo disegno (ammesso che ne abbia uno) si affermerà, e con quali conseguenze.

La sua ammirazione per despoti e autocrati è il riflesso del culto di sé quale commander-in-chief, ma incuba in sé la contraddizione che lo potrebbe anche rovesciare. Il rifiuto della condivisione è un “efficace” e spietato strumento di potere quando se ne detiene in misura adeguata, ma è anche il più potente stimolo alla crescita di forze speculari e concorrenziali. Questione di tempo, tanto o poco non lo sappiamo.

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