L'analisi

I pentiti della ‘Brexit’

“Fuck business”, lancia stizzito Boris Johnson. Si sa, l’uomo non ha certo l’aplomb di un gentleman inglese

(Keystone)
9 luglio 2018
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“Fuck business”, lancia stizzito Boris Johnson. Si sa, l’uomo non ha certo l’aplomb di un gentleman inglese. Provocatore, addirittura sguaiato, lo è sempre stato. Ma quello stizzito insulto scagliato contro il mondo degli affari va probabilmente oltre il caratteraccio dell’attuale ministro britannico degli Esteri. È anche un evidente segnale di inquietudine del capofila dei “leavers”, quelli che, con una campagna infarcita di falsi dati e di orgoglioso patriottismo, hanno condotto la vittoriosa battaglia referendaria per la Brexit, la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Accadeva due anni fa. E quel divorzio – di una nazione che pure aveva ottenuto dall’Ue eccezionali condizioni, e che aveva dettato le regole finanziarie liberiste all’Unione – avrebbe rappresentato il viatico di quella ribellione anti-establishment che fece la felicità dei sovranisti, non solo continentali. Ora il vento è cambiato. L’insolenza del capo della diplomazia di Londra era rivolta non solo all’Airbus, ma anche ad altre aziende con decine di migliaia di lavoratori, che nelle ultime settimane hanno minacciato di lasciare il Paese se il fragile governo di Theresa May non riuscisse a raggiungere con Bruxelles un’uscita “soft”, morbida, che coniughi la secessione con la partecipazione al mercato unico e soprattutto all’unione doganale. Diciamo pure qualcosa della “formula svizzera”.

Ma nel caso del Regno Unito, si tratta di un’autentica quadratura del cerchio, una sintesi che appare impraticabile, ed infatti un compromesso così sfacciato è già stato respinto da Bruxelles, stranamente compatta sul dossier britannico. Così comincia a scricchiolare l’ottimismo di chi, il giorno dopo il voto sulla Brexit, lanciò la trionfalistica idea di una “Global Britain” capace di sostituire il libero accesso a un mercato di 500 milioni di consumatori con una nuova strategia commerciale, in grado di fare affari col mondo intero, e soprattutto di piegare le resistenze dell’Ue. Dimenticando però due fatti: la Gran Bretagna rappresenta meno del dieci per cento delle importazioni degli altri 27 membri dell’Ue, che invece assorbono circa la metà delle esportazioni britanniche. Ricorda l’economista americano Adam Posen: “Il Regno Unito commercia due volte di più con l’Unione europea che con gli Stati Uniti; è più con la Repubblica d’Irlanda che con Brasile, Russia, India e Cina messi assieme”.

Come ha ben sintetizzato Pascal Lamy, ex dirigente dell’Organizzazione mondiale del commercio, “la Brexit si sta rivelando complicata quanto ritirare un uovo da una frittata”. E per due anni ha alimentato uno scontro assai duro, e per nulla placatosi, all’interno del partito conservatore. Anche perché ben 13 sondaggi su 14 realizzati negli ultimi mesi danno la maggioranza a chi ritiene che la Brexit sia stata un errore. Non solo: un terzo degli elettori laburisti che l’avevano sostenuta confessa che oggi non la voterebbe più. Dove sono i facili trionfalismi di due anni fa?

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