L'analisi

L’ultima spiaggia dell’Europa

Lo spettro che si aggira oggi per l’Europa è un migrante. Porta in sé il terrore di una guerra, il fiato greve della miseria, l’incoscienza di un viaggio affrontato senza un dove né il come.

23 giugno 2018
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Lo spettro che si aggira oggi per l’Europa è un migrante. Porta in sé il terrore di una guerra, il fiato greve della miseria, l’incoscienza di un viaggio affrontato senza un dove né il come. Arriva e il suo stesso arrivo destabilizza la terra di approdo, un’Europa le cui contraddizioni deflagrano non appena la miccia accesa in Africa le si avvicina. E l’Europa rischia di venirne distrutta. Ciò che a qualcuno, a molti ormai, non dispiacerà.

Ma è tragico, quasi un contrappasso epocale, che l’Europa, rimessasi in piedi dopo 40 anni di una delle guerre civili continentali più devastanti della Storia, finisca per smembrarsi in autismi rabbiosi, contemporaneamente, o a causa della consunzione di un processo che si era creduto virtuoso, i cui ultimi passaggi “nobilitanti” erano stati la decolonizzazione (più subita che voluta) e la democratizzazione dei Paesi dell’ex Est.

Ora sembra che proprio il retaggio dell’una e dell’altra vicenda storica si manifesti nelle forme meno attese e meno edificanti. È cioè dura, per un continente avvezzo in altri tempi a occupare terre altrui, saccheggiarne le risorse e assoggettarne le popolazioni, vedere le avanguardie lacere di quel continente venire a reclamare una parte pur minima di quel benessere. E allo stesso modo sconcerta constatare che nei Paesi “liberati dal giogo comunista” la concezione autoritaria del potere ha soltanto cambiato denominazione, facendo semmai emergere la natura più truce del nazionalismo.

Dunque ha un bel dire Emmanuel Macron che i “populismi crescono in Europa come la lebbra” (ed è vero); ma non è di questo soltanto che si tratta. Il rifiuto che Salvini oppone ai migranti nei modi belluini che gli sono propri, è speculare alla pervicacia con cui le capitali “rispettabili” insistono nel voler rinviare all’Italia, secondo la lettera del Trattato di Dublino, i migranti illegali dispersi per l’Europa.

E si osservi che per quanto riguarda le pratiche governative, l’alternativa a Salvini sono sinora stati l’accordo che Minniti, precedente ministro dell’Interno, aveva siglato con le bande libiche che gestiscono i campi di concentramento per migranti insediati sulle coste meridionali del Mediterraneo; e quello fortemente voluto da Angela Merkel con l’autocrate Erdogan, per fermare la cosiddetta “rotta balcanica” (che investiva innanzitutto la Grecia: reproba quanto a conti pubblici, a lungo lasciata sola a fare da baluardo ai primi della classe). Merkel a cui va peraltro riconosciuto un gesto di sana follia quando annunciò che la Germania poteva accogliere fino a un milione di rifugiati siriani all’anno, e per il quale sta ancora pagando un prezzo politico elevatissimo.

Nessuno può onestamente dire di sapere come affrontare (non diciamo risolvere) una questione tanto vasta e di portata epocale come le migrazioni. Non un umanitarismo pur sacrosanto e moralmente svettante sulle parole bieche di certi politici. Né i governi che sanno di fascismo da lontano; non quelli nostalgici di una grandeur smontata a Bardonecchia e Ventimiglia; e nemmeno il finto mediatore cancelliere a Vienna che flirta con le peggiori destre per dare il tono al semestre di presidenze Ue che sta per assumere.

Le schermaglie, i toni astiosi che ancora domenica si ascolteranno nell’incontro tra i governi europei saranno una tacita ammissione di questa impotenza. Tanto più premiata dai consensi quanto più la si spaccia per forza e determinazione. All’Italia si concederà qualcosa, ma Salvini chiederà di più. A Berlino e Parigi il presidente del Consiglio Conte prometterà capacità e lealtà, sapendo di non essere attendibile per i suoi interlocutori. Miserie.

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