L'analisi

Il reality di Singapore

Una stretta di mano che non cambia la Storia

13 giugno 2018
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Se sarà servito a evitare (o solo ritardare, chissà) una guerra nucleare, allora l’incontro tra Kim Jong-un e Donald Trump non sarà stato inutile, né sarebbe intelligente augurarsene il fallimento in virtù della repulsione che suscitano l’uno e l’altro.

È bene tuttavia non spingersi oltre: non solo per la spregevole caratura delle figure che ne sono state protagoniste (passati dagli insulti ai messaggi amorosi con la più incoerente prontezza), ma soprattutto per la complessità di uno scenario che nemmeno un’illusionista americano e un dittatore che in patria ha il potere di dettare la verità possono spacciare per ricomposto con sorrisi e dichiarazioni ad uso delle rispettive propagande.

Basterebbe ricordare la scontrosa ritrosia con cui Ytzhak Rabin strinse la mano a Yasser Arafat per cogliere la differenza tra un accordo con il potenziale di cambiare la Storia (finito in ogni caso come sappiamo) e una messinscena i cui contenuti non superano quelli dei reality show televisivi di cui Trump era una star, e di quelli più terra-terra (pianti e professioni d’amore di massa per il leader) di cui la Corea del Nord ha fatto scuola.

Il documento firmato da Trump e Kim è infatti uno stringato elenco di buone e generiche intenzioni, ma ignora deliberatamente le condizioni dalle quali origina, e quelle che si renderanno necessarie per la traduzione in atti dei suoi propositi. Ammesso che siano fondati e sinceri.

Una genericità necessaria non tanto a tenere assieme opposte visioni del mondo (accomunate semmai da una concezione e da una pratica autoritarie del proprio ruolo) quanto a mascherare la radicale conflittualità dei rispettivi interessi e obiettivi. Ciò che non dovrebbe far specie, essendo questo natura e scopo della diplomazia. Se solo si trattasse di diplomazia, ecco.

E di questo è lecito dubitare. L’agenda dell’incontro di Singapore sembrava piuttosto quella di due individualità tese a confermare l’immagine che di sé hanno dato al mondo: Kim per uscire dall’angolo in cui l’ha ridotto il cambio di attitudine cinese e per vedersi legittimato sulla scena internazionale; Trump per dare in pasto ai propri elettori digiuni di cose dal mondo l’ennesimo “successo”, e per accreditarsi davanti a una platea globale come stratega visionario e capace di ridisegnare il mondo.

Allora bisognerà osservare che i temi nominati o accuratamente omessi dal documento non impegnano né l’uno né l’altro. A partire dalla denuclearizzazione, certo. Va infatti detto che, benché sia opportuno privare dell’arma nucleare un despota come Kim, insistere sull’atomica come sola potenziale minaccia rischia di essere un diversivo, possedendo Pyongyang sufficienti armamenti convenzionali per fare di Seul terra bruciata. Non una parola sul destino della massiccia presenza militare statunitense in Corea del Sud, retaggio di una Guerra Fredda che troppi, Washington in testa, hanno interesse a perpetuare. (E silenzio di tomba sulle condizioni di assoggettamento dei cittadini nordcoreani: sarebbe bastato accennarvi per far saltare tutto).

Tutto da gettare, dunque? Non per forza: gli sviluppi ipotetici dello show di Singapore potrebbero rivelarsi positivi oltre e a dispetto delle reali intenzioni dei suoi interpreti, come accade talvolta. Non fosse che il più vecchio dei due ha già dato prova di sé stracciando gli impegni che il suo Paese aveva assunto nei confronti del mondo di cui si dice leader, vestendo meglio i panni del boss.

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