L'analisi

Se questo è un bimbo

“Come è il mare?”chiede Diaa Aina Addeen. Il bimbo non lascia tempo alla risposta, gli occhi immobili, permeati di una sorta di serena tristezza

2 maggio 2018
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“Come è il mare?”chiede Diaa Aina Addeen. Il bimbo non lascia tempo alla risposta, gli occhi immobili, permeati di una sorta di serena tristezza, forse il confine ultimo prima della rassegnazione, aggiunge: “Ho sognato di andarci, al mare”. Il tempo di capire la traduzione dall’arabo, ma l’interprete, Hana, una donna sulla cinquantina, anticipa la nostra risposta e gli promette di portarlo un giorno, quando non ci sarà più la guerra, nella località balneare di Latakia.

Hana ne ha viste tante in questi sette anni di guerra, eppure gli occhi sono inumiditi, mi sembra di vedere – ma c’è poca luce – che una lacrima le solca il volto. Il bimbo la osserva, abbozza forse un sorriso, poggia la mano sulla spalla del padre, Mohammed, che sta seduto sulla stuoia umida mentre lo intervistiamo. Mohammed ha 52 anni, ne dimostra 20 di più, è un uomo distrutto, ci dice.

Ieri ha piovuto, l’acqua è entrata in casa. La luce naturale nella stanza in cemento e mattonelle grigie è cinerea, l’oscurità è in agguato. In questo appartamento di case popolari in costruzione ma mai terminate, non ci sono luce, elettricità, acqua, vetri alle finestre. Le strade fangose serpeggiano tra immondizia e carcasse di macchine arrugginite. Nella stanza, ombre di bimbi improvvisamente rischiarate dalla luce di una torcia elettrica o dello smartphone appaiono nel silenzio, accanto a qualche adulto.

Jaramuna, periferia misera di Damasco, è il porto di approdo di numerosi profughi. Sfollati in questo caso da Douma dopo sette anni di guerra, bombardamenti, privazioni, violenza. Una denutrizione estrema, settimane trascorse a volte a mangiare solo pane, a volte anche erba. I bimbi portano le stigmate del conflitto, sono malati nel corpo e nella mente: una bimba non cresce, ha cinque anni ma sembra averne tre e non cammina, il fratellino appare ritardato, fa gesti strani, un altro bimbo di cinque anni ha il volto di un vecchio: rughe e occhiaie. Si è ammalato a Douma e non è mai guarito, ci dice la mamma.

In questa famiglia allargata, gli uomini portano il terrore ficcato nello sguardo, solo due giovani madri sembrano non cedere alla resa. Il boato delle esplosioni in lontananza lascia indifferenti, la guerra è da tempo entrata nella routine. Così come diventano routine anche per il giornalista che arriva in Siria le immagini del lungo convoglio di carri armati diretti a nord di Homs per l’offensiva finale contro le sacche di resistenza jihadiste, i raid aerei notturni, l’infinito numero di check point, l’inenarrabile distruzione di intere città, le notizie sui missili che americani, inglesi o israeliani lanciano contro obiettivi governativi o filogovernativi.

Stanca l’elenco dei morti quotidiani. E in fondo anche le nostre analisi della guerra a volte stancano. Eppure, no, il volto di Diaa e degli altri bimbi non viene relegato nel “déjà vu”: colpisce, apre una ferita, interroga con una forza che non rende possibile la fuga, cioè l’oblio. È più forte della morte. Chissà perché? Forse perché ognuno di quei bimbi ha impresso in volto il marchio dell’innocenza vinta, dunque della più profonda delle ingiustizie. Forse perché la sua condanna vera è quella di dover vivere. Un bimbo che “non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”.

Damasco sprofonda nella notte, i caccia solcano il cielo per andare a rovesciare il loro carico di morte. Le parole di Primo Levi riecheggiano mentre entriamo nel nostro albergo securizzato. Come se la storia fosse condannata a ripetersi. E così la nostra inutilità di fronte al male.

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