L'analisi

Curdi vincitori ma abbandonati

In politica non esiste la categoria della riconoscenza, su cui prevale immancabilmente l’interesse. Di esempi ne è stracolma la storia.

9 aprile 2018
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In politica non esiste la categoria della riconoscenza, su cui prevale immancabilmente l’interesse. Di esempi ne è stracolma la storia. Ma anche in questi giorni ne abbiamo la conferma. Che concerne i curdi del Nord della Siria, sotto la bandiera Fds. Sono stati sul terreno i protagonisti della lotta armata contro i miliziani dello Stato Islamico, li hanno prima contenuti, poi sconfitti, poi conquistato la loro capitale Rakka. Certo, con l’assistenza dell’aviazione americano-araba. Ma, in un conflitto dove gli altri hanno deciso di “non mettere gli scarponi sulla sabbia”, cioè di non impegnare la fanteria, il loro coraggio è risultato decisivo nella sconfitta militare dei tagliagole di al Baghdadi, che continuano a ispirare il terrorismo jihadista in Europa. Ma ora i vincitori locali sono finiti nel tritacarne degli interessi internazionali. Quelli di Turchia, Russia e Iran, per di più con gli Stati Uniti in veloce ritirata. La Turchia di Erdogan ha lanciato il suo esercito contro il laboratorio curdo siriano: Ankara intende stroncare sul nascere ogni aspirazione di separatismo ai suoi confini, teme che i progetti secessionisti o autonomisti possano contagiare la grande minoranza curda repressa in patria, vuole impedire che stabilisca un legame operativo (in realtà poco probabile) fra l’Fds e i curdi del Pkk iracheno. In particolare, il sultano di Ankara sfrutta politicamente la sua guerra per ottenere il massimo sostegno interno, in un Paese in cui l’opposizione e la stampa sono state messe a tacere in modo violento, e in cui domina la retorica nazionalista quotidianamente alimentata dal regime. Regime che nonostante la sua deriva autoritaria e le sue contraddittorie scelte internazionali, continua ad essere considerato indispensabile all’Alleanza Atlantica, di cui fu per decenni lo “scudo” meridionale in funzione anti-sovietica. L’Europa, poi, a causa della sua inconsistenza politica e dell’accordo sui profughi trattenuti in Turchia, spende qualche parola di sostegno ai curdi, lasciando comunque le mani libere a Erdogan. Ma la prepotenza turca sarebbe improbabile, se non impossibile, senza l’accordo più o meno esplicito di Iran e Russia. Da una parte, gli ayatollah giocano la loro carta siriana (per cui hanno già perso migliaia di “volontari”, con qualche contestazione interna) per la difesa dell’alleato Assad, ma anche per consolidare quel “corridoio strategico sciita” che parte da Teheran, passa per Damasco, taglia l’Iraq, e scende nella parte di Libano controllata dagli Hezbollah. E poi la Russia, con Putin che, essendosi riaperto manu militari la strada verso i “mari caldi” (costante aspirazione della politica russa, fin dai tempi zaristi) intende consolidare la sua presenza, i suoi interessi e la sua regia sul futuro Medio Oriente. Chi manca? Mancano gli Stati Uniti. Donald Trump aveva accusato Obama di essere un pavido “commander in chief”. Lui fa di meglio. Semplicemente dà ordine ai suoi generali di piegare le tende nella regione, considerando finita la guerra all’Isis. Annuncio fatto (twittato) giovedì scorso, proprio mentre, nel vertice di Ankara, Erdogan-Putin-Rohani varavano una sorta di triplice alleanza. Una “nuova Yalta” concordata sulle macerie della tragedia siriana. Che sarà anche nuova tragedia curda. Un popolo che un secolo fa le potenze coloniali vincitrici della Prima guerra mondiale distribuirono in cinque nazioni negando loro il diritto a una patria. Si replica oggi. Con altre potenze neo-coloniali.

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