L'analisi

Un ottimo tiro al bersaglio

3 aprile 2018
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È un nome noto quello di Kobi Meidan in Israele. E lo è ancor più da qualche giorno, da quando il giornalista, ospite di casa di un seguito talk show alla radio delle forze armate, ha pubblicato un post su Facebook: “Ho vergogna di essere israeliano”.

L’immediata sospensione annunciata dal suo datore di lavoro, l’esercito, e che diventerà verosimilmente definitiva, è stata preceduta da una serie di entusiastici proclami da parte dei vertici governativi per quello stesso eccidio all’origine della profonda ribellione morale di Meidan. Benjamin Netanyahu ha salutato “l’ottimo lavoro dei soldati” come se la vita dei 17 morti ammazzati e degli oltre 750 altri palestinesi feriti da proiettili non avesse alcun valore. Neppure nella sfera della retorica.

Quale sarebbe stata la reazione internazionale se l’agghiacciante dichiarazione fosse uscita, in situazione analoga, dalla bocca di un capo di governo arabo? Certo, non sussistono molti dubbi sul fatto che il movimento Hamas abbia cercato di buttare olio sul fuoco. Ma il fuoco è pur sempre quello della disperazione di una popolazione alla quale sono negati i principali diritti: sanità, acqua potabile, movimento e un futuro dignitoso, come ricorda sul quotidiano ‘Ha’aretz’ Marilyn Garson che ha vissuto quattro lunghi anni in quel fazzoletto di terra grande poco più del distretto di Lugano in cui sono intasati due milioni di abitanti. Un inferno.

La manifestazione sostanzialmente pacifica si è svolta nella striscia di Gaza: è lì che i manifestanti sono stati colpiti, nessuno ha varcato quel confine (stabilito unilateralmente). Ai cecchini è stato dato ordine di usare, subito, proiettili veri. Perché? Per Avigdor Lieberman, l’ultranazionalista ministro degli Esteri, le truppe meritano un encomio. Punto. Il suo no a una commissione d’inchiesta è categorico.

L’Israele dei valori laici e democratici, quello dei padri fondatori, è ormai confinato in un museo, ha recentemente scritto Zeev Sternhell, docente all’università ebraica di Gerusalemme. Con una presa di posizione che non vuole lasciare spazio ad ambiguità, il grande storico del fascismo ha denunciato una deriva estremista che, in riferimento ad alcuni politici israeliani, ricorda – sono le parole di Sternhell – “un razzismo vicino al nazismo degli albori”. Parole estremamente forti, scioccanti, che hanno comunque il pregio di enfatizzare quella questione morale di cui lo Stato ebraico ha potuto per anni andar fiero: un Paese sorto dalle ceneri dello sterminio che ha coltivato una diversità etica.

Ma è proprio sul fronte della morale che lo Stato ebraico si trova ora, per molti osservatori, su un piano inclinato. Tsahal non è più Davide che si oppone a Golia, quel mondo arabo che mirava all’annientamento di Israele. Oggi Tsahal scarica bombe sui civili esattamente come altri della regione; i suoi cecchini sparano ad alzo zero su manifestanti disarmati.

Stanca di decenni di sconfitte, si affievolisce la voce dei pacifisti (“ma adesso cosa vogliono da noi?”, si è lasciato sfuggire, riferendosi ai palestinesi di Gaza, il grande scrittore Avraham Yehoshua, voce autorevole del dialogo). Rimangono vive al momento indignazione e resistenza alla deriva nazionalista, soprattutto tra le voci della diaspora e di intellettuali ebraici come il francese Jacques Attali. Per lui la la critica al governo israeliano e alla sua deriva è un imperativo anche per chi ama Israele. La difesa a oltranza delle posizioni del premier israeliano sono invece divenute, nel mondo, il miglior alleato dell’antisemi­tismo.

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