L'analisi

Tutte le guerre della Siria

Se si trattasse soltanto del destino di Bashar al Assad, la guerra in Siria sarebbe finita da un pezzo

Keystone
17 marzo 2018
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Se si trattasse soltanto del destino di Bashar al Assad, la guerra in Siria sarebbe finita da un pezzo. Ma da altrettanto tempo la sua natura è mutata da guerra civile (seguita a manifestazioni assimilabili alle “primavere arabe” del 2011) a scontro sovraregionale, che ha fatto della Siria il teatro di guerre altrui. All’inizio del suo ottavo anno, i morti del conflitto si contano in quattrocentomila; oltre cinque milioni e mezzo i profughi all’estero, e più di sei gli sfollati all’interno dei confini nazionali; mentre decine di migliaia di bambini in età scolare non hanno conosciuto altro che guerra. Né la sua fine pare prossima. Il motivo principale è che questa è una stratificazione di guerre, cominciate in tempi diversi e combattute da bande e eserciti entrati e usciti di scena in momenti differenti.

I primi – la cui sconfitta si sono intestati i più diversi schieramenti – sono stati i gruppi confluiti nell’Isis, lo Stato islamico autoproclamato tra Iraq e Siria profittando del risentimento sunnita nel primo, e del ritrarsi delle forze governative attorno a Damasco, per proteggere il nucleo del potere siriano. Una guerra nella guerra anche quella del preteso califfo al Baghdadi: contro i governi di Damasco e Baghdad e contro i residui locali di al Qaida. Ma anche una guerra eterodiretta: le monarchie del Golfo, a dispetto della professata lealtà agli amici d’Occidente, hanno finanziato le sigle jihadiste più sanguinarie, mentre la Turchia ha alzato per loro le sbarre delle proprie frontiere. Per forzare un cambio di regime in Siria, e più ancora per contenere l’espansionismo (non solo ideologico) iraniano.

Perché dicendo Siria si intende molto di più: un riassetto degli equilibri egemonici nella regione, disputati tra Iran, Arabia Saudita e Turchia. In questa fase, apparentemente, a vantaggio della repubblica islamica (il cui eccesso di ambizione ha però già messo più che in allarme Israele). Una situazione che può soltanto prolungare la destabilizzazione nell’area, se non altro per l’indisponibilità dell’erede al trono saudita Mohamad bin Salman a cedere il passo. Ma anche Ankara, nonostante le millanterie neo-ottomane di Erdogan, non sa imporre una propria “stabilità”. Da nemico giurato di Assad, il presidente turco ha dovuto accettarlo come pari al tavolo negoziale apparecchiato da Mosca; rifacendosi quindi sui soliti curdi, buoni come “fanteria” da impiegare contro le roccaforti dell’Isis, ma terroristi da liquidare quando pretendono di passare all’incasso riscuotendo l’autonomia (o peggio: sovranità) sulle aree di loro storico insediamento.

Ultimo attore, ma decisivo, la Russia. L’intervento nel 2015 non ha soltanto salvato dalla disfatta il regime di Assad, ma cambiato radicalmente le coordinate di influenza nell’intera regione. Mosca ha rafforzato e aperto nuove basi, testato nuove armi e nuove tecniche di battaglia. Indisturbata, si è imposta come regista ineludibile del gioco al massacro mediorientale. Per tornare a essere una grande potenza, e perché allo stato di belligeranza si affidano i regimi autoritari per garantirsi continuità (finché non ne vengano risucchiati, come in Afghanistan…).

E perché come in fisica, anche in politica il vuoto non si dà. Quello lasciato dal sostanziale ritiro degli Stati Uniti – prima con Obama e ancora con Trump (per il quale sganciare una superbomba è già un pensiero strategico) – e dall’inesistenza europea, diplomatica e militare, non poteva che venire occupato da una forza pronta a farlo.

In questo senso, il destino di Assad è pochissima cosa, parte di un ingranaggio strategico enormemente più grande. Come la tragedia che le sue scelte, per prime, hanno ingenerato e di cui porta per tutti la colpa.

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