L'analisi

Una ‘guerra’ senza vincitori

Le guerre commerciali, dunque il protezionismo in marcia, “sono buone e facili da vincere”.

12 marzo 2018
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Le guerre commerciali, dunque il protezionismo in marcia, “sono buone e facili da vincere”. Donald Trump dixit. Una bizzarria storicamente indimostrabile. Che, semplicemente, conferma la sua visione di confronti che mettono regolarmente in secondo piano la ricerca del dialogo e del compromesso, e che tende invece a trasformarsi in prove di forza, di potere e di mascolinità. Almeno a parole. Anche il suo pulsante nucleare era “più grosso e più potente” di quello che il nordcoreano Kim Jong-un vanta di tenere sulla sua scrivania, ma i fatti stanno dimostrando che le cose in realtà non sono così semplici.

Anche per la sua nuova “guerra”, bisognerà vedere fin dove il quarantacinquesimo presidente americano vorrà o potrà spingere la sua sfida. L’annuncio di voler imporre dazi sulle importazioni di acciaio (25 per cento) e sull’alluminio (10 per cento) è comunque un primo inquietante passo, come testimoniano le reazioni degli “alleati” degli Stati Uniti, dal Canada all’Asia all’Europa, che ne sarebbero le principali vittime; e che, senza un negoziato e un ripensamento statunitense, promettono ritorsioni. Partner politici della Casa Bianca che si sentono anche sbeffeggiati.

Per giustificare la sua iniziativa, “The Don” si è infatti appellato alla “sicurezza nazionale”, a una legge varata negli anni della guerra fredda, quindi a una logica conflittuale anche nei confronti di nazioni che almeno sulla carta sono tuttora i sodali della superpotenza sulla scena internazionale. Un irritante paradosso. Le tariffe doganali al rialzo avrebbero infatti l’obiettivo dichiarato di colpire la Cina, che con la sua super-produzione di acciaio ha fatto crollare i prezzi, ma che esporta pochissimo acciaio negli Stati Uniti rispetto ad alleati politici di Washington, adesso trasformati in nemici economici.

Ma questi dazi porteranno vantaggi, almeno sul breve periodo, alla siderurgia, ai lavoratori e ai consumatori americani? Nulla di meno sicuro. Ancora una volta, gli unici beneficiari rischiano di essere i manager e gli azionisti delle imprese messe ‘sotto protezione’. Lo dimostra il precedente del 2002, quando Bush figlio varò una analoga misura, per accorgersi presto che tasse più alte all’importazione avevano cancellato decisamente più posti di lavoro nei settori che utilizzavano l’acciaio di quanti non ne fossero stati creati nell’industria siderurgica. Nella sintesi del ‘New York Times’, anche oggi “per ogni posto di lavoro in più in una fabbrica di acciaio o alluminio, il Paese ne perderà altrettanti nei settori che usano questi metalli, il cui prezzo è destinato a salire”.
Naturalmente non si tratta di difendere tutte le storture del libero mercato e la violenza della globalizzazione, che devono invece essere governate da una politica che nei Paesi occidentali recuperi con risolutezza le leve decisionali, negli ultimi tre decenni arrendevolmente e passivamente lasciate nelle mani di una famelica alta finanza e di obbedienti tecnocrati. Certo, la mossa di Trump è ancora poca cosa, e l’Europa spera ancora in una sorta di condono (a conferma della sua debolezza politica). Ma, come sottolinea il Nobel dell’economia Paul Krugman, se il capo della Casa Bianca intende davvero spalancare le porte a un’insensata escalation di reciproche rappresaglie e di scontri protezionistici, la catena delle ritorsioni “ridurrebbe il volume complessivo degli scambi commerciali mondiali, rendendo il pianeta tutto, America largamente inclusa, sicuramente più povero e con più disoccupazione ovunque”. Tutti perdenti. Altro che guerra gioiosa e facile

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